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Uno stringato prologo di un paio di pagine descrive quattro casi di persone che rinunciano alla possibilità di esprimersi o alla memoria: sessanta immigrati clandestini, nel gennaio del 2002 hanno vagato con le labbra cucite nel campo dove erano incarcerate; trentanove persone rinchiuse in un manicomio si sono fatte cucire la bocca con una sutura chirurgica per protesta; una donna cui vengono prescritti antidepressivi perché non ricorda la sua vita prima dei quattordici anni, dopo avere cominciato a ritrovare la memoria si toglie la vita, pur dicendo di stare bene, di essere finalmente felice; infine, un’altra donna smemorata ospita nella sua persona cinque donne diverse, tutte con lo stesso nome e ognuna con una propria personalità, con proprie opinioni su tutto, dall’amore al lavoro, alla vita in generale: ognuna risoluta nel negare l’esistenza delle conviventi che portano il suo stesso nome e dimorano nella stessa persona. Belladonna di Daša Drndic si apre con questi casi di ricordi perduti e violento mutismo autoinflitto, dei quali Andreas Ban, protagonista del romanzo, viene a conoscenza e dai quali si fa suggestionare: è un accademico costretto a lasciare l’insegnamento e a ritirarsi con una magra pensione in un paesino della Croazia. Gli è sottratta la possibilità di parlare, esprimere idee e a questo punto vorrebbe anche smettere di pensare e ricordare. Perché parlare e ricordare, visto che è ormai uno psicologo che non indaga più la psiche, uno scrittore che non scrive più, un uomo con interessi che non servono più a nessuno, men che meno a lui stesso? Malgrado abbia soltanto sessantacinque anni e pure ben portati, Andreas Ban è in buona sostanza una persona ai margini e ormai inutile, un vecchio che si trova a vivere nella condizione pesante e paradossale che fatalmente affligge gli anziani, la condizione per cui da un lato l’orizzonte si riduce a una sola prospettiva, il vuoto della morte, il nulla definitivo, dall’altro il passato riaffiora con virulenta ostinazione opprimendo la mente di ricordi. Il fardello della memoria si fa ancora più gravoso quando la salute comincia a dare seri segni di cedimento e il neo-pensionato deve confrontarsi con medici e ospedali e, conseguentemente, con un mondo che vede nei corpi ammalati e invecchiati un guscio inutile, un peso sociale.

La colpa della malattia si accompagna a altre tristi scoperte, ai decadimenti culturali e sociali di questo tempo, di un Occidente dove identità individuale e spazio privato sono entità precarie e porose in balia di un potere sempre più sfuggente, meno sfrontato dei fascismi del Novecento ma non per questo meno pericoloso e spietato. Per alcuni versi, la condizione di Andreas Ban richiama quella del protagonista della Caduta di Camus, peraltro esplicitamente evocato nel romanzo, ma il modo egli il cui indaga il suo male di esistere ha perso la sistematicità analitica che era propria degli eroi letterari del secolo scorso, inclusi quelli che duellavano con l’assurdo. È un metodo più disperso, quello di Ban, «del tutto conforme al nuovo secolo, disorientato ma monotono e piatto, e non porta da nessuna parte». Il tono, il senso di un disfacimento incombente e inevitabile che pervade questo romanzo fondato su distruzioni e frammenti ricordano invece la voce potente e oracolare della Terra desolata di Eliot. Quanto alle somiglianze a noi più vicine, il riferimento immediato, e infatti spesso tirato in ballo quando si parla Daša Drndic, è quello di W. G. Sebald. I temi che i due scrittori esplorano con maggior frequenza, dalla centralità della memoria ai fantasmi della guerra e dell’olocausto, sono in effetti gli stessi, ma è soprattutto nel metodo e negli strumenti che i due si assestano su uno stesso fronte: la narrazione erratica sempre pronta a sconfinare nel saggio, il rimuginare continuo, il procedere per associazioni, intrecciando storie e destini tra loro lontani e tuttavia assimilabili, il ricorso frequente a immagini. In entrambi è inoltre primario il bisogno di fare i conti con una vergogna nazionale, una vergogna che per Sebald è ovviamente il nazismo e per Drndic i crimini perpetrati dagli ustascia nel governo fantoccio dello Stato indipendente di Croazia tra il 1941 e 1945, brutalità che molto peso hanno avuto nella nascita e del disfacimento della Jugoslavia nonché negli odi etnici del successivo conflitto balcanico.

C’è tuttavia una differenza sostanziale nel sentimento che dà forma allo stile. Laddove lo scrittore tedesco tende decisamente a una malinconia elegiaca, la croata Drndic si fa apprezzare per una prosa più scarna, dura, per non dire combattiva. Nonostante il suo Andreas Ban sembri ripiegarsi su sé stesso, scontare una condizione di impotenza e debolezza, la voce che osserva l’accademico in pensione e il mondo in cui egli vive e ha vissuto resta inflessibile, non indulge mai a una simpatia pietosa. La partecipazione emotiva – l’empatia, per dirla con una parola oggi abusata – è contenuta nel perimetro di una esposizione nuda dei fatti e delle cose. In momenti estremi, peraltro non rari, Drndic si limita alla mera enunciazione seppure sostenuta da una lingua dal nitore splendido, tra le più belle e forti degli ultimi anni. In Trieste, un precedente romanzo del 2007, comparivano pagine e pagine di soli nomi, quelli di ebrei deportati o uccisi negli ultimi anni del secondo conflitto mondiale. In Belladonna troviamo un momento analogo, i nomi dei 1055 ebrei fucilati a Zasavica tra il 12 e 13 ottobre 1941, nomi però assenti nell’edizione italiana malgrado l’elenco venga citato nei ringraziamenti finali dell’autrice. C’è un’amara ironia in questa omissione: quei nomi, che nelle intenzioni di Drndic erano evidentemente fantasmi, sono scomparsi dal libro ma restano comunque evocati, sospesi tra la fossa comune dell’oblio e l’impossibilità di cancellarli del tutto. E non è l’unico errore di questa edizione: nelle prime pagine della versione italiana, quelle in cui il personaggio viene presentato al lettore, si dice che Andreas Ban ha settantacinque anni invece che sessantacinque. Anche qui il caso ha giocato con perfidia. Il protagonista di Belladonna è un riflesso di chi lo ha scritto, un’immagine ribaltata come lo sono le immagini degli specchi. L’inversione principale riguarda il sesso del personaggio, un uomo che si scopre affetto da un male tipico delle donne, il cancro al seno. L’età di Ban è comunque la stessa che aveva Drndic nel 2012 ovvero al momento della pubblicazione del libro nella sua lingua di origine; invecchiandolo di un decennio in occasione di questa traduzione apparsa a distanza di dieci anni, l’editore ha perpetrato la coincidenza tra l’autrice e il suo doppio. E visto che Doppelgänger è peraltro il titolo di un precedente romanzo di Drndic, verrebbe quasi da pensare che non si tratti di un banale refuso ma di una precisa scelta, non fosse che nel frattempo la scrittrice è deceduta perché malata anche lei di tumore. Del resto, gli errori non mai sono davvero casuali: più grande è la qualità del libro che funestano, più acquistano senso, svelando le ragioni del testo. E che Belladonna sia un grande libro lo si può affermare senza paura di sbagliare.