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César Aira, scrittore, argentino, segue un suo metodo. In cosa consista questo metodo è presto detto. Ogni giorno si reca in un caffè, si siede e scrive una pagina. Riempito di parole quell’unico foglio, si alza e se ne va. Il foglio andrà a costituire il tassello quotidiano di un libro che, in media, gli richiede tre o quattro mesi di lavoro, giacché i suoi libri contano, in media, un centinaio di pagine. Ne ha scritti una sessantina a questa maniera, convinto che l’improvvisazione sia quanto di più vicino alla vita reale si possa sperare di produrre. Improvvisazione sì, perché un aspetto per nulla secondario del metodo Aira è quello di spostarsi in un’unica direzione: avanti, come in una fuga. Fuga hacia adelante, per dirla con le parole dello stesso scrittore. Senza tornare mai sui propri passi per rivedere, ripensare, correggere le pagine scritte nei giorni precedenti. Per questa e altre ragioni si è guadagnato l’epiteto di “Duchamp della letteratura Latino-americana”. Nessuno può confermare quanto strettamente si attenga al suo metodo, quanto di davvero improvvisato ci sia nei suoi brevi e idiosincratici romanzi. Certo è che non appena una scena o un’immagine sembrano assumere una forma minimamente stabile, Aira volta pagina e rimescola tutto, togliendo la terra da sotto i piedi del lettore, che si trova così ad affrontare un’esperienza simile al frenetico su e giù delle montagne russe. Chi cerca il conforto di una placida armonia, o una trama dall’andamento lineare dove tutto torna e ogni cosa combacia come in cerchio perfettamente chiuso, è meglio che si rivolga altrove, perché a César Aira preme in primo luogo coltivare il suo “innato disgusto per la perfezione”. Disgusto che condivide con i suoi personaggi, a cominciare da Patri, protagonista di un romanzo del 1990 intitolato I fantasmi e or ora (o forse a breve) pubblicato in SUR, neonato marchio editoriale della Minimum Fax interamente dedicato alla letteratura dell’America Latina, ulteriore conferma di un risorgente interesse verso le narrazioni oniriche, surreali, fantasmagoriche, tipiche di quella parte di pianeta. E in effetti, in quest’epoca traballante e oscura, dove tanto le utopie che le certezze del Ventesimo secolo sono tramontate senza che nuovi fari e nuovi stelle polari abbiano preso il loro posto, il mondo anfibio allestito da scrittori come Aira ha molto da raccontarci. La Patri di cui si diceva è una ragazzina che vive assieme alla sua famiglia nell’ultimo piano di un lussuoso edificio residenziale in costruzione nel centro di Buenos Aires. Questo perché suo padre, Raúl Viñas, a dispetto delle giovanili ambizioni di architetto, si è ritrovato immigrato in Argentina a fare il guardiano di un cantiere. Per qualche bizzarra ragione, sebbene sia ancora una specie di gruviera senza pareti, la costruzione è già popolata di fantasmi, i quali, per restare in tema di stranezze, anziché aggirarsi coperti dai classici lenzuoli dotati di opportuni fori in corrispondenza degli occhi, fluttuano nudi come niente fosse, coi corpi cosparsi di calce e le “vergogne” di fuori, assumendo così sembianze più umane degli umani e incuriosendo Patri, la cui acerba età la rende peraltro esposta a turbamenti di natura sessuale. Tutto ciò avviene in un giorno particolare, anch’esso anfibio, a cavallo tra un anno morente e uno ormai prossimo, quando passato e futuro si stringono nell’abbraccio del 31 dicembre, l’unico giorno dell’anno in cui rimpianti e speranze sembrano una cosa sola. Una cosmicomica gotica dove tutto si confonde, dunque: gli uomini coi fantasmi, la casa ancora in costruzione col quartiere già abitato, la vita col sogno.