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È storia nota (leggenda quasi) che, dopo aver portato a termine A sangue freddo, per Truman Capote le cose non furono più quelle di prima. In effetti, era stato lui stesso a profetizzare che, dopo quest’opera, pubblicata a puntate sul New Yorker, “nella mia vita nulla sarà più come prima”. Per dirne una, non portò più a termine altri romanzi. Si imbarcò nell’impresa proustiana di Preghiere esaudite; nelle intenzioni una grande mappatura del “regno del nulla”, quel jet set newyorkese che pure lo aveva portato in palmo di mano. Per dirne un’altra (che è poi la diretta conseguenza della prima), Capote perse l’amicizia di gran parte di quel bel mondo. I suoi ricchi amici gradirono poco infatti d’essere rappresentati per quel che probabilmente erano. Seguì un lungo calvario fatto di alcolismo, tossicodipendenza, relazioni fallimentari. Morì poco prima di compiere sessant’anni. Ma cosa c’era di tanto maledetto in quel “romanzo verità” (come fu chiamato) da causare così devastanti effetti? Il peso di affrontare la verità forse? Il calarsi in una vicenda di insensata follia? Recentemente, in un incontro pubblico, più precisamente il giugno scorso a Firenze, in occasione del Festival degli Scrittori – Premio von Rezzori, Emmanuel Carrère ha dichiarato di avere una teoria in proposito, teoria che, da quanto ho compreso, già espresse in altra sede ma che personalmente mai avevo udito prima.

Ritiene Carrère che la voce distaccata di quel libro, una voce in terza persona e quasi “flaubertiana”, per dirla con la definizione di Carrère, funziona bene soltanto nella prima parte, ossia fintanto che si tratta di raccontare la vera storia di una coppia di sgangherati malviventi che uccidono un’intera famiglia senza un vero movente, a meno di non chiamare movente il dispetto, il disappunto di non avere trovato quel che si aspettavano, una cassaforte piena di soldi. I problemi nascerebbero con la seconda parte del libro, quando, dopo l’arresto, Capote inizia ad avere un rapporto coi due. A questo punto, la voce distante non funzionerebbe più, perché lo scrittore stabilì una relazione intensa con gli assassini (di uno di loro giunge persino a innamorarsi) al punto che promette loro di aiutarli assoldando i migliori avvocati per sottrarli alla pena capitale. Dov’è il problema? Semplicemente nel fatto che Capote si rendeva conto di una cosa: per la riuscita del suo libro, l’epilogo ideale non era una condanna relativamente il più mite possibile, bensì la soluzione più estrema e definitiva, l’impiccagione. Si trovò così combattuto tra lo slancio formale e forse non troppo sincero di salvarli e la segreta speranza che venissero giustiziati. Secondo Carrère, fu questo conflitto morale a segnare il destino di Capote. Non saprei dire quanto l’ipotesi sia verosimile, ma è comunque suggestiva. E non soltanto per la faccenda Capote in sé. Viene da chiedersi, infatti, se Carrère, magari inconsapevolmente, abbia pensato anche un po’ a sé; quanto si sia immedesimato nell’ambigua situazione di Capote, giacché anche lui, Carrère, è scrittore che al male vero (si pensi solo a L’avversario) ha attinto a piene mani. Certo, ci potrebbe superare l’ostacolo concludendo che il male esisterebbe comunque, a prescindere dal fatto che qualcuno ne faccia oggetto di racconto. Tuttavia, quando si resta soli coi propri pensieri, i conti con il tribunale della propria coscienza (o del proprio inconscio) sono meno lineari ed è allora possibile che si celebri quel che la giustizia dei tribunali non prevede: il processo alle intenzioni. Alle proprie intenzioni.