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Difficile non domandarsi se a ispirare l’ultimo romanzo di Enrique Vila-Matas sia stata la visione di I’m not there di Todd Haynes. In quel geniale falso documentario di qualche anno fa Bob Dylan non era mai se stesso. Si frammentava in sei personaggi diversi. Sei personaggi in cerca di Dylan, verrebbe da dire. Sei incarnazioni possibili, ognuna delle quali concepita a immagine e somiglianza di una delle tante facce assunte dal sommo menestrello nel corso dei decenni. L’idea era più che azzeccata, perché se Dylan può essere considerato il paradigma dell’artista moderno è proprio per il suo continuo mutare, per il suo incessante attentare alla propria identità, per la sua ostinazione a diventare sempre e comunque altro da sé. Così la pensa anche Vila-Matas che vede in Dylan “la reincarnazione permanente. L’uomo senza nome: non a caso, in Pat Garrett & Billy the Kid di Peckinpah, si chiama Alias”. Nel labirintico romanzo dello scrittore barcellonese, il fantasma di Dylan è una presenza costante, seppur non così centrale come il titolo induce a credere. Vi aleggia infatti perlopiù come nume tutelare della cronica inclinazione a indossare maschere. Il vero spettro, quello che infesta il libro al punto di modellarne l’intreccio, è Amleto, il quale, si sa, era sua volta perseguitato dallo spirito del padre.

Bob Dylan nel castello di Kronborg, Danimarca, maggio 1966.

Il nocciolo è presto detto. Abbiamo un giovane di nome Vilnius che vanta una spiccata aria alla Dylan. Gli somiglia fisicamente e si acconcia come lui, ma di fatto è molto diverso. Non ambisce ad avere più facce. Vuole essere il più autentico possibile e pertanto la faccia che già ha gli basta e gli avanza. Vilnius è mosso da una grande passione: il fallimento, tema sul quale medita di girare un film. A questo scopo ha istituito un Archivio Generale del Fallimento. Da dove scaturisce un interesse tanto bizzarro? Probabilmente dal padre, Lancastre, famoso scrittore dalle mille anime e dunque, diversamente da Vilnius, somigliante a Dylan nel carattere. Perché dal padre? Perché capita spesso che un capofamiglia particolarmente carismatico abbia effetti castranti sulla prole. Capita cioè che il figlio, oppresso da un papà ineguagliabile, veda nel fallimento il solo destino perseguibile. Il caso in questione è a tal punto disperato che nemmeno il sopraggiungere della morte del padre libera il figlio dalla cappa di castrazione. Passato a miglior vita, Lancastre trova infatti il modo di infestare coi suoi ricordi la mente di Vilnius. Ricordi a dir poco disturbanti giacché instillano il sospetto che sia stata la madre di Vilnius, in combutta col proprio amante, ad avere ucciso Lancastre. Urge vendicarsi, ma prima ancora urge capire se le cose stanno davvero così. Alla maniera di Amleto, il giovane sosia di Dylan pensa allora di ricorrere al teatro per servirsene come una trappola per topi. Mettere in scena l’omicidio affinché gli assassini si svelino, ecco il piano. Il marcio della Danimarca riappare così in Catalogna. Le atmosfere brumose e notturne del castello di Elsinore trasmigrano d’incanto nella Barcellona di oggi, dove, tra nugoli di zanzare tropicali, la banalità impera. Un padre che disprezza il figlio, il figlio che detesta il padre, nondimeno padre e figlio restano legati da un patto di sangue che trascende l’oltretomba, rinsaldandosi anzi proprio nella morte. Un motivo vecchio quanto il mondo è qui magistralmente rivisitato come una ballata apocrifa, nella certezza che al di fuori del teatro e della finzione non c’è nulla, nessuna verità vera da svelare.