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«Nessun altro soggetto è, per lo scrittore, intensamente personale come la boxe» afferma Joyce Carol Oates. Conferire alla proprie passioni confini meno assoluti sarebbe forse più giusto, è tuttavia innegabile che in molti tra gli scrittori americani hanno dedicato diffuse e viscerali attenzioni alla boxe E per «viscerali» non deve intendersi un semplice interesse quantunque profondo, bensì un’adesione totale; totale al punto che boxe e letteratura finiscono per ritrovarsi su un medesimo piano, trattate con un medesimo linguaggio, neanche fossero due ramificazioni di una medesima disciplina. Nel suo libro su Mike Tyson, apparso tempo fa negli Oscar Mondadori e tradotto da Giuseppe Strazzeri (di fatto una selezione di articoli apparsi su riviste e giornali di grande diffusione come «Life» o «The New York Times»), la scrittrice americana ci concede talvolta paragoni iperbolici e forse non proprio inaspettati; il riconoscere, per esempio, nell’attesa del k.o. «qualcosa di simile alla misteriosa catarsi di cui scriveva Aristotele». Si spinge anche oltre, in verità: al fine di dimostrare quanto sia siano l’istinto del pugile di concentrarsi su un avversario per volta, scomoda Virginia Woolf e il suo rifiuto di leggere gli scrittori coi quali si sentiva in competizione.

Ma se è vero che il metodo dell’associazione può consentire di tutto, qui si sottendono questioni che, pur avendo ben poco da spartire con sport e letteratura in senso stretto, sono comunque meritevoli di attenzione. L’idea che la boxe obblighi «a indagare i confini stessi della civiltà» può infatti riportarci alle conflittuali origini dell’identità statunitense, in particolare al Sud americano antecedente alla guerra di secessione, un’epoca in cui «gli schiavisti bianchi obbligavano gli schiavi neri a ingaggiare tra loro furiosi combattimenti, scommettendo sul risultato». Ed è proprio quando affronta certi temi, ovvero quando non fa di tutto per conferire a un pugile dignità letteraria, che Joyce Carol Oates trae il meglio dalla sua passione per la boxe. Tratteggiando il profilo sportivo e umano di Tyson, coglie almeno un paio di aspetti fondamentali. Il primo è che, a dispetto delle apparenze, l’essenza della boxe è solo in parte legata al razzismo. Nonostante il tipo del campione dei pesi massimi corrisponda quasi sempre a un «bestione nero», il vero discrimine non è mai il colore della pelle ma il ceto. La boxe è l’unico sport di massa accessibile a giovani la cui bassa estrazione sociale e culturale sbarra loro le porte ad attività più rispettabili quali il baseball. Stando a questo dato di fatto e a un luogo che non è dunque soltanto comune, il pugile perfetto è un diseredato, spesso un orfano o quantomeno un bambino abbandonato a se stesso, che vive ai margini del consesso sociale, per non dire totalmente immerso in quello delinquenziale; una persona tanto violenta quanto psicolabile che può sfuggire alla prigione solo accentando di salire sul ring, di fatto un’altra gabbia seppur con corde più elastiche.

Ceto e razza rappresentano però soltanto la facciata del conflitto, giacché in America il vero scontro tra eletti e reietti avviene su una base molto più pragmatica: il denaro. Il paradosso della boxe è che premia in modo eccessivo e irrazionale saggi di violenza che, se offerti fuori dal ring, comporterebbero l’arresto. Ma se la società si è dotata di leggi che mettono al bando qualunque prevaricazione fisica, la boxe sembra non essere da meno se si pensa che la sua ferocia è contenuta in una miriade di regole, norme, tradizioni e superstizioni. Quasi fosse la faccia pulita del denaro, la complessa normativa di questo sport sembra puntare diritto al cuore di uno spirito affatto americano per cui libertà significa, prima di ogni altra cosa, competizione. Il gioco estremo della boxe starebbe infatti a «dimostrare il modo in cui il mondo funziona davvero, piuttosto che quello in cui si dice, ci si augura o ci si ripromette debba funzionare»; una logica che è la stessa dell’altro gioco (letterario oltre che estremo) immaginato da Chuck Palahniuk in Fight Club; un gioco dove combattimenti gratuiti vengono disciplinati con regole a metà tra esegesi biblica e setta clandestina: «Prima regola del Fight Club: non parlare mai del Fight Club».

C’è poi lui, il pugile perfetto, la violenza come puro atto. Pensare al narcisismo ispirato e all’impegno politico di Muhammad Alì sarebbe fuorviante. Egli è più che altro l’eccezione di una tipologia umana che Tyson ha incarnato alla perfezione. Un’assoluta e inarrivabile ferocia ha fatto di quest’ultimo dapprima un mito e poi un mostro sacrificale. Fintanto che i suoi colpi, sferrati, per sua stessa ammissione, con intenti omicidi, hanno rispettato le regole del ring, Tyson è stato definito non solo il pugile perfetto ma anche una persona di rara mitezza nella vita privata. Dopo la controversa condanna per lo stupro di una Miss Black America e il selvaggio duplice morso all’orecchio di Holyfield, egli non è stato solo spedito in carcere ed espulso dal circuito pugilistico, ma anche cancellato (ipocritamente e brutalmente) dal genere umano tout court. «Volendo semplificare, Tyson è un animale, una bestia allo stato brado, e animali del genere è necessario che siano tenuti permanentemente quanto più lontano possibile dalla popolazione e dalla società. È scontato che ciò si possa fare anche a spese dei diritti del signor Tyson» fu l’allucinante commento di Timothy Rollins su «The American Partisan». Ovvero: quando si dice che la boxe ci obbliga a spingerci ai confini stessi della civiltà.

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