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Buñuel e Dalì avevano ragione: chiunque trovi bello o poetico questo loro film è un idiota. Anche coloro che esaltano l’impossibilità di trovarvi un significato sono idioti. La mancanza di significato è un velleitarismo tipico dell’arte per l’arte; è avanguardia. E Un chien andalou non è un film, così come il surrealismo non è avanguardia. In quanto opera surrealista Un chien andalou è un attentato contro la volontà tipicamente avanguardista di trascendere, trasfigurare, trasformare, sublimare, nobilitare, rarefare, ribaltare in arte l’umano e il suo sottosuolo, i suoi visceri, gli impulsi che, misteriosi o no, inspiegabili o no, ci impongono di desiderare e fare di noi quello che siamo. La fogna del vivere, in poche parole. Certo, anche Un chien andalou ha una sua bellezza e una sua poesia. Ma come in ogni opera davvero surrealista, bellezza e poesia sono fatti accidentali. Inevitabili quasi. La luminosità che pulsa a intermittenza dalle immagini in bianco e nero è qualcosa di connaturato alle pellicole di un tempo. I fotogrammi sembrano palpitare di luce perché il cinema di allora è fatto così. Corre voce che una volta Alfred Hitchcock fece mettere una lampadina in un bicchiere di latte. Da quando ho sentito questa storia ogni volta che vedo Notorius il bicchiere di latte avvelenato destinato a Ingrid Bergman mi sembra più luminoso e quindi più artisticamente bello. Ma dubito che lo sia realmente. Non mi sorprenderei se un giorno venissi a sapere che la faccenda della lampadina era solo una balla inventata da Hitchcock per tenere incollato il mio sguardo a quello stupido bicchiere, affinché mi prostrassi al cospetto del suo genio. Qui, con il cane andaluso, accade l’esatto contrario. O forse lo stesso, chissà. Dicono che l’occhio nel quale Luis Buñuel affondò il rasoio non era quello della donna, ovviamente. Ma di un vitello. Eppure ciò non basta ad attutire l’orrore dello squarcio di buio che si apre in quella piccola sfera. L’assurdità onirica del gesto di Buñuel è talmente estrema da dilatarsi per tutta la durata della pellicola. Tutto quel che segue — le formiche che escono dalla mano, la mano mozza sull’asfalto, la persona che si lascia investire dall’auto, le mani che palpano il seno della donna, l’uomo che come un bue trascina un aratro-pianoforte — tutto ci pare l’inevitabile conseguenza di quel taglio. Avvertiamo fortemente, bramiamo, un preciso nesso di causa ed effetto. In realtà, quel che abbiamo non sono che associazioni, similitudini, cose che si sovrappongono, che si confondono, che cambiano di ruolo. Le mammelle diventano grossi bulbi oculari, la mano viene tagliata perché ha tagliato un occhio e le formiche che fuoriescono dal palmo sono come tanti moscerini in un occhio. O chissà cosa. Alla fine, retrospettivamente, nel ricordo, le immagini sembrano illuminarsi di senso. Per esempio: è forse perché ispirato dalla nuvola che attraversa la luna che l’uomo decide di tagliare l’occhio alla donna? È in un simile barlume di senso prende forma il miraggio della bellezza e della poesia. Ma non c’è nessuna bellezza, nessuna poesia. Se la colpa è davvero della luna, infatti, perché mai l’uomo affilava il rasoio già prima di uscire in balcone? È perché il pomello della porta e bianco e tondo come l’occhio della donna? O meglio: del vitello? La verità è che è bella la pellicola. È poetico che essa tremi ancora di luce a distanza di decenni. È bello e poetico quel che vediamo nel film. Ma lui, il film in sé, è soltanto orribile. Perché è soltanto un miraggio. Perché l’uomo è un sognatore definitivo.

 

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