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Considerata per i suoi fatti nudi e crudi, la trama del Grande Gatsby sembra il canovaccio di uno di quei romanzi sentimentali infarciti di stereotipi e languidezze. Il nocciolo della faccenda, un amore che non può sbocciare per via di incolmabili differenze di censo, è un motivo fin troppo abusato. Nondimeno proprio di questo si tratta, e Francis Scott Fitzgerald fu il primo a riconoscerlo: «L’idea di base di Gatsby è l’ingiustizia di un povero giovane che non può sposare una ragazza coi soldi. Questo tema ritorna in continuazione perché l’ho vissuto sulla mia pelle». Ovviamente, lo scrittore non voleva limitarsi a esprimere la sofferenza generata dalla cruda realtà per cui «nove ragazze su dieci si sposano per denaro». Voleva anche consegnare alle stampe, e alla storia, «qualcosa di nuovo; qualcosa di straordinario e bello e semplice + intricatamente strutturato». E non soltanto voleva. Riteneva fermamente di esserci riuscito, di avere concepito «il migliore romanzo americano di sempre», anche se all’indomani dell’uscita, il 25 aprile 1925, molti critici si dichiararono di tutt’altro avviso. Gli riconobbero di aver colto lo spirito di un’epoca, l’Età del Jazz, ma non più di questo. Trovarono che la prospettiva del romanzo fosse limitata, il soggetto trito e i personaggi sgradevoli e immaturi. E qui si profila un punto di domanda. Se il nocciolo del Grande Gatsby appariva trito e immaturo già agli inizi del secolo passato, cosa lo rende credibile al lettore contemporaneo? Perché mai l’amore romantico di questo gangster buono in abito rosa non ci risulta melenso e fuori dal tempo? Una risposta bella e pronta ce l’avrei, anche se d’ordine affatto personale. Perché una storia così, epilogo tragico a parte, io l’ho vissuta. Ha inizio quando avevo all’incirca otto anni; forse anche prima, non ricordo bene. Come molti bambini, detestavo che mi si portasse dal barbiere, ma la mia fiera opposizione non impediva che l’inconcepibile supplizio del taglio di capelli – la spuntatina, per usare l’insensata minimizzazione cara all’uomo delle forbici – avesse ciclicamente luogo. Accadeva allora che mi lasciassi condurre alla bottega come un corpo inerte, alla maniera di un condannato a morte, e lì attendevo il mio turno seduto su un divanetto in finta pelle, una terrificante plastica di colore marroncino. Accadeva pure che il mio sguardo afflitto cercasse riparo nella copertina di certe riviste, un tempo chiamate anche rotocalchi, poste su un tavolinetto col piano di formica, anch’esso di un colore desolante. Fu così che creai i presupposti per un amore che avrebbe segnato la mia vita. Com’è nella predisposizione di certa stampa scandalistica, quelle copertine mostravano gente del bel mondo ritratta nello splendore della sua celebrità. Erano perlopiù stelle del cinema o della televisione e non di rado venivano mostrate in coppia, colte a tradimento nell’atto di baciarsi o scambiarsi tenere effusioni. Un furtivo stare insieme immancabilmente commentato da brevi frasi dal tono roboante, manco flirtare fosse lo scoppio della terza guerra mondiale.

Monaco 1966, la principessa Caroline fa il suo debutto in società

Di tanto in tanto, però, il posto di primo piano veniva riservato a una fanciulla regale e bellissima, dai tratti perfettamente disegnati. Si chiamava Caroline di Monaco e benché fosse più grande di me di pochissimo – aveva tredici o quattordici anni – i miei occhi di bambino, complici gli abiti che lei indossava e le posture impeccabili, la vedevano come una signorina fatta e finita la cui principesca bellezza si librava ad altezze siderali rispetto al ciarpame che solitamente popolava quelle riviste. Tanto mi erano di conforto la sue fotografiche apparizioni nei tenebrosi momenti della spuntatina che finii per innamorarmi. Sebbene bambino, ero ben consapevole del baratro che ci separava. Sapevo cioè che non sussisteva la benché minima possibilità d’essere corrisposto da un simile angelo del cielo, il che condiva il mio invaghimento di una nostalgia preventiva, al contempo dolce e crudele, la nostalgia per ciò che non si è mai avuto né mai si potrà avere. Crescendo, le rimasi abbastanza affezionato da seguire con interesse le cronache delle sue traversie sentimentali, e l’alone quasi soprannaturale dal quale l’avevo vista ammantata da piccolo finì per rivelarsi radicato con la forza di un imprinting. In altre parole, il tipo di donna che Caroline incarnava aveva su di me lo stesso effetto di un pioniere dell’etologia su un brutto anatroccolo orfano. Insomma, potevo ritenermi vittima della stortura mentale che, secondo Hemingway, soggiogò Fitzgerald: la convinzione che i ricchi fossero diversi dagli altri esseri umani. Hemingway aveva le sue ragioni, visto il tenore delle considerazioni che sottolineano i momenti chiave del romanzo: «Gatsby era immensamente consapevole della gioventù e del mistero che la ricchezza imprigiona e preserva, della freschezza di tanti vestiti, e di Daisy, scintillante come argento, tronfia e sicura, al disopra delle lotte infuocate dei poveri». Frasi del genere inducono a pensare che l’amore totale e ossessivo per Daisy non sia che la fatale conseguenza dell’attrazione verso il potere magico della ricchezza, un potere che rende una ragazza più bella e più giovane di qualunque bellezza o giovinezza la natura possa regalare, facendola apparire «diversa», un essere di una razza superiore che coi normali umani condivide una somiglianza soltanto accidentale.

Alla maniera di Gatsby, sono rimasto fedele a questa idea di amore per la principessa Caroline finché non mi capitò di conoscere una ragazza che aveva il suo stesso nome e, cosa ancor più importante, dotata di un titolo nobiliare. Sosteneva di essere discendente in linea diretta di quella dama anglosassone che secoli fa cavalcò nuda per le vie di non so quale cittadina inglese affinché il marito si convincesse ad abrogare l’ennesima pesante gabella imposta ai sudditi. Non ho mai appurato se fosse vero. Certo è che la sua famiglia aveva i titoli giusti e quando mi ritrovai a diventare il suo fidanzato quasi ufficiale conobbi l’irragionevole consapevolezza di cui si parla nel Grande Gatsby. Credevo di provare un amore assoluto e probabilmente non mi sbagliavo, ma in determinate situazioni la differenza tra ciò che si crede e come stanno davvero le cose conta zero. Malgrado fossimo ormai alle soglie del terzo millennio, la nostra relazione fu oltremodo complicata dall’invalicabile divario sociale. Andò comunque avanti per un paio di anni nel corso dei quali lei mi lasciò svariate volte adducendo motivi come la mia impossibilità di accompagnarla a Vienna per il valzer delle debuttanti. Viene da sé che questa diversità che mi vedeva manchevole ed escluso non fece che accrescere il mio amore. Era sciocco tutto ciò? Può darsi, ma vissuto dall’interno non lo sembrava affatto. E comunque il cuore della faccenda non è l’immaturità di rincorrere un amore improbabile. Un giovanotto di modesti natali tormentato ai limiti dell’insensatezza per una principessa o un’ereditiera non perde mai del tutto il lume della ragione. E infatti, il modo in cui Fitzgerald descrive un olimpo fatto di case sontuose dove le feste danzanti paiono il senso primigenio dell’esistere non è cieco. Lo scrittore vede benissimo la futilità quasi oltraggiosa di tutto ciò.

«È quello che sono sempre stato: un ragazzo povero in una città ricca, un ragazzo povero in una scuola per ricchi, un giovanotto povero in un club di studenti ricchi, a Princeton. Non sono mai riuscito a perdonare ai ricchi il fatto d’essere ricchi, rabbuiando così la mia vita e tutte le mie opere»; è così che Fitzgerald vedeva sé stesso e i ricchi che lo ossessionavano. Le parole di Hemingway suonano dunque un po’ sbrigative. Prendiamo il momento in cui viene rievocato l’incontro tra Gatsby e Daisy: «Era la prima ragazza “a modo” che avesse mai conosciuto. Sotto varie e mentite spoglie gli era già capitato di entrare in contatto con persone simili, ma un’impercettibile barriera di filo spinato si era sempre frapposta fra lui e loro. La trovò desiderabile alla follia. Andò a casa sua, la prima volta in compagnia di altri ufficiali di Camp Taylor, quindi da solo. Restò sbalordito; non era mai entrato in una casa tanto bella. Ma a donarle un’intensità da togliere il respiro era il fatto che ci vivesse Daisy, per lei era un ambiente normale come per lui lo era la sua tenda da campo». Capita spesso che il verbo stregare sia riferito all’amore, ed è per l’appunto quel che capita a Gatsby: resta stregato, e non soltanto nel senso lato del linguaggio romantico. Resta letteralmente stregato: più che un colpo di fulmine, la vista della meravigliosa casa di Daisy gli si imprime nell’animo come una maledizione. La tenda da campo, il filo spinato, la guerra imminente che condurrà Gatsby all’altro capo dell’oceano fanno certo parte dello scenario dell’epoca, ma sono anche la metafora dei sentimenti contrastanti che Fitzgerald covava verso i ricchi: un calderone dove ribolliva di tutto, dalla voglia di rivalsa alla consapevolezza che non c’era nulla che potesse fare per scavalcare davvero quella barriera.

Tommaso Pincio "Sfera celeste 22 (Francis Scott Fitzgerald)" 2013 varia materia su tavola cm 24 x 20

Tommaso Pincio “Sfera celeste 22 (Francis Scott Fitzgerald)” 2013 varia materia su tavola cm 24 x 20

È arbitrario affermarlo, ma nel senso di fallimento che oppresse gli ultimi anni della sua esistenza pare di leggere una perversa determinazione, quasi un castigo che lo scrittore si inflisse da sé per essere stato tanto sfrontato da aspirare a qualcosa che non gli competeva e che, forse, nemmeno voleva; un mondo che amava solo perché questo stesso mondo, escludendolo a priori, non gli concedeva il diritto di rifiutarlo e dunque di detestarlo apertamente. Ma, come ho detto, è un’ipotesi arbitraria. Quel che si può con certezza affermare è che tutto prese forma con la prima ragazza di cui Fitzgerald si innamorò. Si chiamava Ginevra King, un nome che già di per sé era tutto un programma; giunse alle orecchie di Scott quando aveva appena quattordici anni. Ginevra era di Lake Forest, il centro abitato più esclusivo dei dintorni di Chicago, a detta del futuro scrittore «il luogo più favoloso del mondo». Il padre era un banchiere importante e possedeva una scuderia di pony, proprio come Tom, l’uomo che Daisy sposerà e che mai lascerà per tornare con Gatsby. La passione si protrasse per cinque anni, fino al settembre 1918 quando Ginevra convolò a previbili nozze con un uomo del suo rango. Molti anni dopo Scott si lamentò si essere stato «abbandonato con la massima noia e indifferenza», ma la verità è che Ginevra lo considerò sempre e soltanto un diversivo, uno fra le decine di spasimanti coi quali si divertiva a flirtare. In un’intervista rilasciata nel 1974 la donna, ormai anziana, dichiarò con molta nettezza di averlo «considerato nulla di speciale», non rammentava neppure di averlo mai baciato e si disfece con noncuranza delle lettere che le aveva scritto. La verità è che non avrebbe mai potuto abbandonarlo perché non ci fu mai niente di serio tra loro, se non nella mente di Scott. A Gatsby accade lo stesso. Va in guerra, combatte, torna, mette insieme una discreta fortuna con mezzi al di là del lecito, compra una casa enorme, intrattiene con feste spettacolari la società più in vista di New York e dintorni. Tutto nella speranza, anzi no, di più; tutto nella ferma convinzione che Daisy lasci il marito per coronare quello che lui crede essere il loro sogno. Ma nel momento decisivo Daisy non viene nemmeno sfiorata dal pensiero di mettere seriamente a repentaglio una vita comoda e sicura per un sogno, per qualcosa che è soltanto nella mente di Gatsby. Nondimeno Gatsby non è un alter ego. Scott era lontano dall’ingenuità del suo personaggio. Nel suo strano candore, sapeva che Ginevra era comunque irraggiungibile; sapeva che diventare ricchi non è la stessa cosa che nascere ricchi. «Io parlo con l’autorità del fallimento. Ernest con l’autorità del successo. Per questo non potremo più sederci allo stesso tavolo», ebbe a dire una volta all’amico-nemico Hemingway. Parlare con l’autorità del fallimento significava, per lui, avere accettato di vivere nel proprio sogno pur sapendo che sarebbe rimasto un sogno.

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Secondo qualcuno il peggior destino per un uomo è quello di identificarsi con le proprie illusioni. È il destino che Scott scelse per sé: confondere quel che si desidera col mondo reale, la vita che si sogna con quella che ci tocca vivere. È il destino che condanna Gatsby a una tragica quanto misera fine. Ma la grandezza non consiste nella donchisciottesca sconsideratezza d’inseguire l’irraggiungibile. Noi lettori apprendiamo la storia di Gatsby da un narratore di comodo, un amico, un giovanotto di nome Nick Carraway, che nello svolgersi degli eventi riveste perlopiù il ruolo di testimone. Nick appartiene al mondo dei nati ricchi da cui Gatsby è escluso; è un lontano cugino di Daisy e ha frequentato lo stesso college di Tom. Eppure è dalla parte di Gatsby e ne racconta la storia proprio per rendergli giustizia. In un certo senso, Nick è una terra di mezzo. Costituisce il tramite tra un mondo sognato e la cruda realtà, e mentre Gatsby rappresenta soltanto il lato più ingenuo e capriccioso di Fitzgerald, Nick ne incarna la parte consapevole, quella che conosce bene il fallimento che lo attende. Fitzgerald si rammaricava di non possedere il magnetismo animale che emanano certi uomini. Si vantava però di supplire a questa mancanza con l’abilità. Conosceva l’animo femminile e le regole della civetteria, pertanto non ci aveva messo molto a imparare i trucchi della seduzione. Il suo preferito era appunto l’elusione. Se voleva conquistare una ragazza le diceva qualcosa di galante, lasciando però in sospeso il complimento. «I tuoi sono occhi di una bellezza indescrivibile. Be’, forse ci sarebbe una parola per definirli e credo proprio di conoscerla, ma ora non posso dirtela». Ovviamente, la ragazza gli restava incollata finché non avesse spifferato l’aggettivo negato. Il problema era che un gioco del genere non può durare a lungo. Fitzgerald lo sapeva, ma finché durava gli era possibile vivere all’interno di un sogno irrealizzabile, confondere quel che è con quel che non potrà mai essere. Fece qualcosa di analogo in letteratura. Nel 1933, quando il crollo era alle porte, scrisse: «Tendenzialmente, noi scrittori dobbiamo ripeterci. Nella nostra vita facciamo due o tre esperienze importanti e toccanti… Poi impariamo il mestiere, più o meno bene, e raccontiamo le nostre due o tre storie – ogni volta camuffate in modo diverso – forse dieci volte, forse cento, finché la gente ci sta ad ascoltare». Scrisse a questa maniera finché Zelda, la compagna di una vita, non fu ricoverata in una clinica psichiatrica e i debiti non divennero troppi per poter onorarli. La tristezza cominciò a sembrargli null’altro che tristezza. Allora scrisse su Esquire una serie di articoli nei quali, col suo strano candore, gettò in pasto ai lettori la propria disperazione. Nessuno raccolse il suo grido se non per denigrarlo. Non gli restò che morire, convinto, e forse felice, di avere fallito.

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