«Nati non siamo per l’azione, né per il lucro, né alle schiere, ma solo per l’ispirazione, i dolci suoni e le preghiere». Questi versi, ultima quartina di un componimento di Puškin qui ripresa da una storica traduzione di Renato Poggioli, sono quasi un manifesto, l’anticipato compiendo di un carattere tra i più tipici, se non il carattere letterario per eccellenza dell’Ottocento russo: l’uomo votato all’accidia, capace di esistere solo in sé stesso, rinserrato nei propri rovelli, negato all’impegno, all’ambizione di imprimere un segno tangibile, materiale, nelle cose del mondo. Un simile tipo d’uomo è certo universale; è possibile riscontrarne tracce persino nella nostra letteratura, lungo una linea che da Leopardi conduce a Landolfi. E tuttavia soltanto nella letteratura russa esso assume una dimensione statuaria, assoluta, quasi mistica, diventando una sorta di canone dotato di precisa definizione. Soltanto nella letteratura russa il canone dell’uomo superfluo disegna una linea chiara e inequivocabile; una genealogia di personaggi straordinari che, partendo proprio da Puškin e dal suo Eugenio Oneghin, attraversa tutto un secolo, investendo generazioni di scrittori; di grandi scrittori. Soltanto nella letteratura russa, l’uomo superfluo può dirsi, come recita il titolo di un romanzo di Lermontov, un eroe del suo tempo.
Tale è la dimensione dell’uomo superfluo che ancora se ne avvertono espliciti strascichi, o perlomeno si avvertivano sino alla fine dello scorso millennio, nel 1998, anno di uscita di Underground ovvero un eroe del nostro tempo, da alcuni considerato il più importante romanzo dell’era post-sovietica e da poco giunto anche dalle nostre parti in una splendida traduzione di Sergio Rapetti. Dal libro di Lermontov, l’autore Vladimir Makanin prende in prestito anche una frase chiave dell’introduzione: «L’eroe… è bensì un ritratto, ma non di un’unica persona: è il ritratto che comprende i difetti di tutta la nostra generazione, nel loro pieno sviluppo». Presentata in esergo, la citazione ha il lapidario suono di una impegnativa dichiarazione d’intenti e sembra gravare come un motto tutelare sul lettore, quasi a volerlo costringere a chiedersi chi davvero sia, se un emblema o un autoritratto trasfigurato, l’eroe del romanzo ovvero del tempo in questione. Com’è d’obbligo in opere di questo genere, l’eroe, più che un individuo in carne e ossa, si manifesta nei panni di una voce che non conosce requie; è una coscienza malata che mai smette di parlare di sé; una parente stretta, si direbbe, del torvo figuro al quale Dostoevskij diede parola in una sulfurea novella. Anche questa ascendenza, seppure meno apertamente, è svelata sin dal titolo, giacché è fatale: la parola «underground» in un romanzo russo risveglia all’istante Ricordi del sottosuolo. Va tuttavia detto che, ai tempi sovietici di Breznev, artisti e scrittori esclusi dalla cultura ufficiale si servivano di questa parola per identificare il loro stato e talvolta la loro vocazione. E che questa parola fosse trapiantata dall’inglese non era per caso: marcava ancor più una distanza dagli apparati governativi e, in particolare, dalla loro politica antioccidentale.
Un uomo di questo underground è per l’appunto la voce del romanzo. Del suo nome, ci è dato sapere soltanto il patronimico. Petrovic viveva assieme alla moglie un tempo, e ha avuto anche una figlia, ma che genere di donne esse fossero e quale fine abbiano fatto resta un mistero. Il solo famigliare presente nel racconto di Petrovic è il fratello Venedikt. Di tre anni più giovane, Venedikt vantava la stoffa necessaria per fare di sé un pittore di genio, ma quand’era ancora studente fu denunciato da un informatore del Kgb e confinato in un reparto psichiatrico, il classico posto in cui finiva chiunque fosse tanto pazzo da esprimere riserve sul paradiso sovietico. Petrovic è invece scrittore, sebbene di una risma speciale e però non così rara. Appartiene a quella fatta di scrittori votati a restare tali soltanto in teoria. Non ha un pubblicato una riga in gioventù, con Breznev al potere, perché le sue opere cozzavano con i dettami ufficiali, e seguita a non pubblicare ora che il comunismo è passato. Il motivo adesso è un altro: ha perso qualsiasi afflato letterario. Della sua vocazione, del suo essere scrittore (un essere che in Russia ha un senso tutto speciale) gli resta soltanto la vecchia macchina da scrivere di fabbricazione jugoslava che tiene incatenata nel timore, perlopiù insensato, che qualcuno possa sottrargliela. Al momento in cui ci parla, nel 1991, Petrovic ha la metà di cento anni più quattro (per dirla nel modo in cui ci rivela la sua età) e non dispone di una vera casa né ha un vero impiego. Tecnicamente, sarebbe un disoccupato senza fissa dimora, ma lui preferisce presentarsi come il guardiano di una «casalbergo», un casamento dove in passato vivevano a migliaia e ora sono rimasti in pochi, anche perché l’edificio sta per essere venduto e ristrutturato per offrire alloggi più consoni alla nascente piccola borghesia.
Non è ben chiaro se Petrovic abbia avuto chance migliori per riscattarsi, certo è che svolge un’attività tipica (persino quintessenziale, nell’era sovietica) dello scrittore reietto: si occupa, dimorandovi, degli appartamenti i cui proprietari sono assenti per qualche motivo. E quando non ha un appartamento cui badare, si aggira e vive per i corridoi infiniti della casalbergo e tanto gli basta. «M’è pienamente bastato questo mondo di corridoi, non so che farmene delle bellezze d’Italia o della Siberia Transbajkalica, delle casette cresciutelle di New York o vattelapesca. Persino di Mosca faccio volentieri a meno». E se ne comprende il perché. È evidente che per lui (come per Makanin), la casalbergo è Mosca. Probabilmente la casalbergo è anche l’intero paese, l’Unione Sovietica nel suo disgregarsi e diventare altro. Di più: a patto d’intendersi sul senso, questo edificio in fase di transizione è il comunismo, e il senso non è tanto politico quanto un senso letterale, d’ordine più filosofico: comunismo in quanto sentirsi membro integrato e partecipe di una comunità. E qui torna in ballo la questione dell’uomo superfluo. Petrovic non si sente tale, tutt’altro. Si considera necessario alla comunità proprio in quanto fallito, perché questa sua condizione di scrittore sui generis induce gli abitanti della casalbergo a usarlo come confessore. Con lui si sfogano, a lui confidano dubbi e tormenti. «Se fossi stato un vero scrittore» considera Petrovic, «con libri pubblicati… avrebbero avuto paura, sbronzi o non sbronzi, anche solo di presentarsi». D’altra parte, Petrovic sa bene d’essere disprezzato e per una ragione precisa: «Loro sgobbavano dalla mattina alla sera e io no. Loro vivevano in appartamenti e io nei corridoi. Loro erano inseriti, se non meglio di me comunque in modo assai più certo, nel mondo ch’essi chiamano circostante». Alla fine, con la nuova Russia che avanza, Petrovic verrà espulso anche dai corridoi, perderà lo pseudolavoro di «guardiano di chissà cosa». Gli resteranno però due omicidi, commessi vilmente e che (in un evidente dialogo a distanza con Raskol’nikov, l’ultimo e più estremo della genia degli uomini superflui) reclamerà di confessare. Il suo è però un bisogno più simulato che sentito. Quel che gli preme è salvaguardare dal senso di colpa il proprio io. In fondo la sua emarginazione, il vivere senza fissa dimora, più che una sconfitta erano una scelta di libertà totale, un modo per sottrarsi alle responsabilità di chi è inserito nel mondo «circostante»; un modo per essere puro io, pura voce, uomo superfluo.
Quel che resta al lettore è invece quel che si diceva in principio: stabilire cos’è (al di là di Petrovic) quest’uomo superfluo, se un emblema o un autoritratto trasfigurato. Appassionato di scacchi, un passato di matematico e poi di cineasta alle spalle, Vladimir Makanin è originario negli Urali, dove nacque nel 1937. Ciò significa che al momento in cui la voce del romanzo inizia a narrare, Makanin aveva esattamente la stessa età, cinquantaquattro anni. Ma diversamente da Petrovic, Makanin è, oltre che autore pubblicato, uno degli scrittori russi più noti e studiati. La sua opera conobbe una fama istantanea già negli anni del cosiddetto disgelo; suoi scritti comparvero in pubblicazioni ufficiali dell’Unione Sovietica negli anni 70 e 80. Va detto, che Petrovic non sia Makanin sarebbe indubbio anche senza simili precisazioni. Del resto, l’avvertimento preso in prestito da Lermontov rimarca chiaramente che nell’eroe non è ritratto un unico individuo, bensì qualcosa di più collettivo: i difetti di una intera generazione. Underground, infatti, propone una nutrita carrellata di personaggi per nulla edificanti. Ciò non risolve la questione di fondo, però. Si ha infatti la sensazione che Petrovic sia un eroe non per i suoi difetti emblematici ma per il semplice essere un ritratto, un modello ideale, per il suo essere al contempo dentro e fuori il mondo, o meglio per la sua condizione di guardiano, di colui che guarda dalla soglia.
E qui il fatto che Petrovic sia uno scrittore e che pure Makanin lo sia non può non avere un peso: lo scrittore con tutti i suoi limiti, anzi proprio in virtù dei suoi limiti, è probabilmente l’eroe (seppure in negativo) cui si allude. A tale riguardo, la quarta di copertina dell’edizione del romanzo di Lermontov curata da Paoli Nori propone quale scheda lo stralcio di una lettera alla zarina Alessandra. Vi si legge il disappunto dello zar Nicola I causatogli da certi romanzi, romanzi guastati dal vizio di esasperare i caratteri, per l’insistere su personaggi ripugnanti: «Gli uomini sono già così predisposti a farsi ipocondriaci o misantropi, che non si capisce il motivo per cui questi scrittori debbano risvegliare o ravvisare tali tendenze. Così, ripeto, per conto mio è un triste talento, che dimostra solo la mente malata dell’autore». È un obiezione non priva d’interesse. Perché mai uno scrittore apprezzato come Makanin dovrebbe trasfigurarsi nei panni di un disprezzato non scrittore (peraltro pure assassino) qual è Petrovic? Perché Doestoevskij dovrebbe dare voce a persone «malate» quali lo spregevole narratore di Ricordi dal sottosuolo o il protagonista di Delitto e castigo? Basta la curiosità per il lato oscuro a spiegare l’inclinazione?
Certo, potremmo aggiungere che ognuno di noi nasconde un lato oscuro o perlomeno tema di nasconderlo. Potremmo cioè dire che Makanin dia voce al Pretrovic che è in lui e che altrettanto faccia Doestoevkij con Raskol’nikov. Se così fosse, però, l’impressione dovrebbe essere che il personaggio Raskol’nikov esiste e ci parla perché esiste e ci parla il suo autore. Invece la sensazione è spesso un’altra e contraria, ovvero che esista un Dostoevskij proprio perché al mondo esistono i Raskol’nikov. Lo zar ha ragione: gli uomini sono predisposti a guastarsi e non fosse per la loro abietta natura, gli scrittori non avrebbero alcunché da guardare; starebbero sulla soglia a contemplare una stanza vuota o magari una stanza idilliaca, che però non sembra di loro interesse. Tra i tanti motivi che rendono seducente il romanzo di Lermontov va ricordato questo: il suo sgradevole protagonista ci appare da principio in lontananza, attraverso il racconto di una persona che a sua volta riferisce il racconto di un altro. Un eroe dei nostri tempi ha tre distinte voci narranti e il passaggio da una voce all’altra comporta un avvicinamento al protagonista. Questo espediente, questa distanza artificiosamente creata e poi colmata, ha l’effetto di rendere attraente ciò che ci dovrebbe respingere, consente di magnificare, di considerare emblematico e persino eroico e dunque necessario l’uomo superfluo, ossia colui che non è soltanto inutile; colui che sarebbe meglio non esistesse affatto.
È probabile (e «probabile» è un eufemismo) che la distanza artificiosa non sia soltanto uno stratagemma per sedurre il lettore, ma che scaturisca da una vocazione precisa, tutta interna alle ragioni dello scrivere. La prima voce narrante che incontriamo nel romanzo di Lermontov è al contempo la persona più distante dalla materia narrata e la più vogliosa di narrare e perciò sempre a caccia di storie. Significativo è il modo in cui, proprio in principio di romanzo, essa si preoccupi di estorcere una confessione di qualche tipo a un occasionale compagno di viaggio, il capitano Maksim Maksimyč: «Avevo una gran voglia di tirargli fuori qualche storia, desiderio proprio di tutti i viaggiatori e di tutti gli uomini di lettere». E così sarà: gli tirerà fuori ben più di una storia: gli tirerà fuori un’anima, il cuore del quale nessuna storia degna d’interesse può fare a meno: un personaggio, lo spregevole Pečorin, l’uomo superfluo. Non meno significativo è che Pečorin tenga un diario ma non si preoccupi più tanto dello stile. Costui non conosce la giusta misura del raccontare. Divaga ed eccede; straparla ed è felice di straparlare. Anzi non è corretto dire che non conosca la giusta misura, giacché ammette apertamente di conoscerla. Diciamo allora che non se ne preoccupa. Nello scrivere come nel vivere Pečorin è un cinico sbruffone. Se frega della misura. Agisce e parla a dispetto delle conseguenze. Anche qui: non che sia incapace di prevederne le conseguenze. Tutt’altro. Solo, se ne frega. Azioni e parole sono spesso calcolate nel perseguimento degli esiti peggiori, perché egli si preoccupa soltanto di dar sfogo al suo vuoto malessere. È superfluo sia come uomo che come letterato, epperò è un personaggio impagabile. Un perfetto Limonov, per dirla col nome di uomo superfluo che va per la maggiore.
Nel chiamare in causa Limonov, non ci si riferisce ovviamente all’uomo in carne e ossa ma alla versione di Carrère, una versione di molto vicina all’originale e nondimeno diversa proprio perché Carrère ha gratuitamente ritagliato un posto per sé nella narrazione. È una gratuità fondamentale, quella di Carrère: senza di essa la sua biografia perderebbe gran parte del suo fascino. Sfrondato dei passaggi in cui Carrère parla di sé e dei marginali punti di contatto con Limonov, il libro avrebbe un unico merito: riproporre in maniera organica e ordinata un racconto che Limonov aveva già fatto nel corso degli anni in maniera frammentaria ed esagerata. Non per nulla i detrattori del libro (detrattori bizzarri, giacché il libro lo hanno in effetti apprezzato) non riconoscono alcun merito specifico a Carrère se non quello di aver vampirizzato i testi e la vita di Limonov. L’accusa ha un suo fondamento e tuttavia, benché di questo in parte si tratti, il vampirismo — questo tipo di vampirismo — ha pregi ragguardevoli. In fondo, la biografia di Carrère ricalca il modello di Un eroe del nostro tempo. Crea una vicinanza artificiosa tra il narratore e l’uomo narrato. È artificiosa, questa vicinanza, perché ai fini nudi e crudi della materia in oggetto risulta pressoché irrilevante, per dirne una, sapere quali siano i legami personali di Carrère con la Russia. Ai fini dello sguardo, però, della prospettiva, dell’anima del racconto, questa intrusione del narratore non è affatto irrilevante.
Chiunque abbia avuto modo di incrociare anche soltanto per pochi attimi la propria strada con quella di una celebrità ha ben presente il fenomeno. Dopo che una persona famosa, un’immagine, è entrata fisicamente nel nostro campo visivo, questa stessa persona cessa di essere pura immagine ai nostri occhi. Cominciamo a vederla in modo diverso; seguiamo gli sviluppi della sua vita da lontano, il mondo in cui essa dimora continua a essere un empireo per noi irraggiungibile, eppure ci sentiamo in qualche misura più partecipi. Nasce una simpatia, e questo sentimento non ha nulla a che vedere con la natura della persona, con le sue effettive qualità; riguarda invece la distanza, non più percepita come assoluta bensì come relativa, concreta, e dunque colmabile seppure illusoriamente. Carrère vorrebbe essere Limonov, vorrebbe possedere la sua sfrontatezza, avere vissuto la sua vita, ma è pure consapevole che tra il suo modo di essere, tra la sua educazione borghese, e quel modo di stare al mondo la distanza è siderale. Probabilmente, Carrère vorrebbe essere Limonov restando però quel che è o perlomeno rinunciando a poco o nulla di quel che è. Vorrebbe essere un uomo superfluo (giacché Limonov è senza dubbio l’ultimo aggiornamento dell’uomo superfluo) e nondimeno presentabile. Il suo libro parla essenzialmente di questa distanza e del modo fittizio in cui è possibile colmarla, trasformandola in qualcosa d’altro, trasformando una persona in un personaggio, uno sbruffone in un eroe del suo tempo. È in questa stessa chiave che va letto il rapporto tra Makanin e il suo Petrovic, con la sola differenza che non è mai esistito nessun vero Petrovic, così come non è mai esistito nessun vero Pecorin. Una differenza che, alla lunga, si rivelerà di non poco conto.