Che la critica statunitense abbia letto l’ultimo libro di J. R. Moehringer scegliendo quale stella polare il tracollo finanziario del 2008 è più che ragionevole. Argomento di Pieno giorno è infatti la vita di Willie Sutton, nemico di un sistema da sempre inviso a una discreta fetta della nazione. La sua aura da eroe popolare ci viene sbandierata sin dalle primissime pagine, con parole che definire benevole è un eufemismo: «Più romantico di Bonnie e Clyde, Sutton vedeva le rapine in banca come una vera arte e ci si dedicava con uno zelo e una concentrazione degni di un artista… Era un creativo, un innovatore, e aveva dimostrato di avere, come i più grandi artisti, un tenace istinto di sopravvivenza… Era come Henry Ford reinterpretato da John Dillinger, con tratti di Houdini, Picasso e Rasputin». Lo stesso Moehringer ha inoltre più volte dichiarato che a ispirarlo furono proprio i rovinosi eventi del 2008. A suo dire, all’epoca carezzava un progetto di tutt’altro genere: dedicarsi alla vita di un allenatore di football (dunque ancora uno sportivo, dopo la fortunata esperienza come ghostwriter di Agassi). Il terremoto finanziario gli ricordò però quanto odiasse i banchieri, per lui «architetti dell’apocalisse». Giunse alla conclusione che calarsi nei panni di un rapinatore di banche sarebbe stato il modo più salutare di elaborare la sua rabbia per l’ennesima e non accidentale depressione economica. La scelta cadde appunto su Willie Sutton, più confidenzialmente chiamato Willie l’attore per la sua propensione a travestirsi prima di eseguire una rapina.
In decenni di «onorata» carriera, mise assieme una discreta fortuna senza sparare un colpo. Che nessuno si fosse mai «fatto male» costituiva un motivo di vanto per Sutton, ma non risponde del tutto al vero. Nel 1952 un ragazzo ventiquattrenne con l’hobby dell’investigazione lo riconobbe in metropolitana, lo seguì e contribuì alla sua cattura. Poco tempo dopo fu ucciso. A sparare, sembra, fu la mafia, ma su Sutton pesa tuttavia il sospetto di aver sollecitato l’esecuzione. Nelle tante e patrie galere che l’ospitarono, tra cui la famigerata Sing Sing, trascorse all’incirca metà della vita. Evase tre volte e tre volte fu ripreso. Sarebbe dovuto restare dentro sino alla fine dei suoi giorni, ma nel 1969 la Corte Suprema ne decise la scarcerazione per motivi di salute. Sutton era messo parecchio male a quel punto. Ormai quasi settantenne si ritrovava con un enfisema e le arterie delle gambe da operare. Sopravvisse un altro decennio, nel corso del quale, fra le altre cose, prestò il volto per la campagna pubblicitaria di una carta di credito e fece da consulente per alcune banche, alle quali spiegò anche come proteggersi da gente come lui. Fu anche letterato, a suo modo. I lungi soggiorni carcerari gli consentirono di leggere molto e bene. Dante, Shakespeare, Tennyson e persino Freud. Scrisse anche, e pubblicò due libri. Il primo risale agli anni 50 e è un memoir in forma di intervista il cui titolo suona più o meno così: Io, Willie Sutton. La vicenda personale del più scaltro fra i rapinatori di banche moderni, nel racconto fatto a Quentin Reynolds. Il secondo lo scrisse invece di suo pugno in vecchiaia, giovandosi in parte dell’aiuto di un ghostwriter (dettaglio che Moehringer deve aver certamente soppesato). In questo caso il titolo, Where the money was, è ancor più significativo. Proviene infatti dalla leggendaria risposta data a un giornalista che gli chiese per quale ragione rapinava banche. Talmente leggendaria da diventare legge, perlomeno tra i medici americani, che oggi chiamano «legge di Sutton» il corretto procedimento da seguire in una diagnosi: in primo luogo, prendere in considerazione l’ovvio.
Ma come spesso capita con i miti, la risposta, oltre che ovvia, è apocrifa. Fu lo stesso Sutton a negare di averla mai data. Per giunta, a sentir lui, anche la domanda lo sarebbe. Non gli fu mai posta, rivela nell’autobiografia. Concede però che, qualora glielo avessero chiesto, avrebbe probabilmente risposto così, perché è quel che direbbe chiunque. La cosa più ovvia. Perché rapinavo banche? Perché è dove ci sono sono i soldi. O forse no. Sutton ci ripensa all’istante, per fornire una ragione più sottile: «Perché mi piaceva. Amavo farlo. Nulla mi ha mai fatto sentire più vivo dell’entrare in una banca per rapinarla. Mi piaceva a tal punto che in capo a una settimana o due ero già lì che cercavo il prossimo obiettivo. Il denaro rappresentava lo stuzzichino, nient’altro». Dobbiamo credergli? Secondo Moehringer, no. Moehringer è un narratore e sa bene come tanto l’ovvio quanto il puro piacere siano motivazioni troppo deboli per reggere un racconto. Fatalmente, anche il suo Sutton nega di avere mai dato la risposta diventata leggenda, e lo nega proprio parlando con un giornalista, un giovanotto non granché esperto, il quale, guarda caso, ha il cattivo gusto di vestire abiti da banchiere. In alternativa al puro gusto della rapina, il Sutton di Moehringer ci propone però una ragione più forte, quella del cuore. È per via di un perduto amore di gioventù se il Sutton di Moehringer non ha fatto che rapinare banche; più precisamente un amore contrastato dal facoltoso padre di lei. Su un piano strettamente narrativo, la motivazione non fa una piega. Un poco scontata forse, ma non ovvia. Resta però la verità storica e qui Moehringer si prende varie licenze, perché la ragazza in questione non sembra avere occupato un posto tanto importante nel cuore del vero Sutton.
Pieno giorno è tuttavia un romanzo, non una biografia. Non lo è per l’elusività del soggetto. Resosi conto che Sutton era un imbroglione, che si travestiva non soltanto quando rapinava banche ma ogni qualvolta parlasse di sé, dando versioni immancabilmente diverse e contraddittorie, Moehringer ha preferito la strada del romanzo, seppure dalle caratteristiche particolari. Perché se da un lato la vita di Sutton viene romanzata per dargli un senso, ovvero sfrondata delle versioni più o meno apocrife affinché diventi storia, dall’altro la circostanza in cui il racconto si manifesta è vera. Sappiamo per certo che nel giorno della definitiva scarcerazione, avvenuta alla vigilia di Natale del 1969, Sutton era atteso da una folla di giornalisti. Tutti volevano intervistarlo, ma soltanto uno poté. Il privilegiato (nel romanzo, il giovane imberbe agghindato da banchiere) sequestrò Sutton per un giorno intero, portandolo a spasso per New York, per i luoghi del suo passato. Da questo amarcord forzato scaturì un articolo «stranamente superficiale, infarcito di errori o di menzogne, e carente di vere rivelazioni», perlomeno stando al giudizio dato da Moehringer nella nota introduttiva di Pieno giorno. Un giudizio non propriamente terzo, perché quel che davvero accade in quel lontano Natale tra Sutton e il giornalista è di fatto la storia raccontata nel romanzo.
C’è poi un altro e più significativo elemento che mina l’imparzialità del giudizio. Anche Moehringer si è trovato in una situazione analoga. Anche Moehringer ha avuto la possibilità di ascoltare le confessioni di un eroe popolare, il tennista Agassi. Diversamente dal giovane giornalista di Pieno giorno, ne ha però ricavato un racconto straordinario. Si ha dunque la sensazione che in questo suo nuovo libro Moehringer voglia raccontarci, seppure trasfigurati in un contesto diverso, i retroscena del precedente, la cornice in cui è nato Open, quasi che il suo intento profondo fosse dare visibilità a cosa significa fare lo scrittore fantasma, mostrandoci che il senso di una vita non emerge tanto dalle parole di chi l’ha vissuta, quanto da chi è capace di identificarcisi al punto di ricavarne un racconto. Due libri complementari dunque. Ma se in Open non c’era che la storia di Agassi, con il suo bagliore toccante, qui tutto appare un poco sfumato, come rischiarato da una luce incerta, simile a quella che precede l’alba e segue una notte che si è trascorsa insonni, a ricordare. E forse il modo più soddisfacente per leggere Pieno giorno è proprio quello di pensare a Sutton non come a un leggendario rapinatore di banche (del quale non ci importa poi molto), ma semplicemente come al protagonista di una storia in cerca d’ascolto.