Il lettore ignaro, o poco in confidenza con le cose dell’arte, potrebbe ricavare idee sbagliate da una scorsa distratta del numero che Riga dedica a Andy Warhol. Potrebbe, per cominciare, stentare a capire cosa davvero facesse Andy Warhol, quale fosse la sua attività. Tra le molte immagini presenti nel volume, infatti, non ve n’è una che riproduca in termini inequivocabili un suo dipinto. I quadri è possibile scorgerli soltanto sullo sfondo di fotografie scattate in musei e gallerie; foto dove, più che un’idea dell’arte in sé, è restituito l’umore dei moderni santuari espositivi. Le opere paiono fare tappezzeria, spesso coperte dai visitatori che si aggirano per le sale o vi sostano pensosi. Quanto alle altre immagini, o non afferiscono affatto all’arte o riguardano opere di altri artisti, dal che il lettore ignaro potrebbe dedurne che Warhol fosse un critico o, perché no, un mercante o un collezionista. A onor del vero, se il nostro lettore non fosse poi tanto distratto, giunto quasi al termine del volume, a pagina 338, un indizio gli apparirebbe: l’ingrandimento di un fotogramma di Andy Warhol’s Fifteen Minutes. E qui, incredibilmente, una lampadina s’accenderebbe, perché se è vero che non parliamo di un’opera in senso stretto ma di un fermo immagine dal talk show che l’artista condusse per Mtv, è nondimeno innegabile che la nozione del quarto d’ora di celebrità appartiene ormai, oltreché al suo mito, al novero del luoghi comuni, del comune dire. Quanto al lettore smaliziato, non resterà certo di sale per via della strategia elusiva del curatore del volume. Chi ha dimestichezza con le cose dell’arte vi riconoscerà anzi una tendenza da tempo impostasi tra gli addetti ai lavori: quella di non rendere l’arte subitamente riconoscibile pur lasciandola in bella vista, come la ben nota lettera trafugata di Poe. La si mischia pertanto alle cose del mondo, al cosiddetto reale. Alla vecchia nozione della mimesi, buona solo per la soffitta ormai, pare preferirsi la mimetizzazione, come se, non potendo più rappresentare il mondo, si tenti almeno di confondersi in esso, di rientrarvi dalla porta di servizio.
Nel caso di Andy Warhol, l’elusività è tuttavia non soltanto giustificata, ma persino doverosa. Chi era davvero? Quale senso dare alla sua opera? E dove collocarla? Sono questioni tutt’altro che ingenue e ancora in attesa di risposte plausibili, e non certo per mancanza di applicazione da parte di chi, a vario titolo, le ha soppesate. Con la sola eccezione di Duchamp, sul quale sussistono però molte certezze sebbene fosse più esoterico, nessun artista del Novecento è stato altrettanto discusso o, per meglio dire, messo in discussione. Con esiti diversissimi, spesso contrastanti, come il volume di Riga testimonia. D’altra parte, l’opera e ancor più l’artista paiono trovare senso proprio nella vanificazione di qualunque approfondimento. Su quel che riguarda Warhol si può planare, saltellare a pelo d’acqua, ma affondare il tiro comporta il rischio di afflosciarsi come sciatori che perdano contatto col motoscafo trainante. In questo senso, il suo assioma sulla superficie ha un poco il suono di una minaccia, dell’anatema o forse più semplicemente di un comandamento che critici e filosofi, per vocazione, da sempre infrangono. Più di qualunque altro artista, Warhol ha costretto l’esegesi in un angolo e perciò l’ha pure alimentata, convertendola in un genere a sé stante. Una meditazione talmudica (virtualmente infinita e senza soluzione) del nostro tempo che ha prodotto esiti anche straordinari. Di essi esiti la monografia raduna il meglio. Saggiamente, seppur con un pizzico di perfidia chissà quanto involontaria, il volume ospita anche le parole di Warhol. Estratti da A. Un romanzo (illeggibile, ovvio) e quattro interviste ricolme di affermazioni surreali, insensate, irridenti e irritanti, quando non sconfinanti nel sublime di una trascendente idiozia. In conclusione, un volume imperdibile da sfogliare ciclicamente e a caso, come si fa coi testi sacri.