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Nella mente di tutti, l’immagine dell’italiano come gaudente indefesso, frequentatore abituale di ristoranti e luoghi di svago nonostante la temperie recessiva, è ormai associata a un imprenditore da lungo tempo imprestato alla politica. Quella immagine non è, però, un’invenzione della sua fantasia pervicacemente ottimista. Raccontando in un’intervista di un suo soggiorno a Roma, lo scrittore Murakami Haruki ricorda che all’epoca (erano gli anni ottanta) tutti parlavano di crisi e paventavano sviluppi apocalittici. Eppure non successe niente di tragico. «Al contrario, la gente sembrava spassarsela: erano allegri, andavano al ristorante…» L’intervistatrice, una studiosa australiana di nome Rebecca Suter, anziché replicare che la situazione attuale è un poco diversa se non decisamente più seria, conferma sorridendo: «Ha ragione, anche io ogni volta che vado in Italia ho la stessa impressione». Così assecondato, Murakami si spinge oltre, allarga la sua analisi alla Grecia, dove, a suo dire, non si percepisce la sensazione di un paese allo sfascio: «La nazione è in crisi, ma i cittadini vivono bene». Sotto questo aspetto la realtà della Grecia sarebbe dunque simile a quella dell’Italia: «Gli individui sono ricchi, è il paese che è povero». È presumibile che parecchi cittadini di entrambi i paesi faticheranno a riconoscersi in un simile quadretto. Nella stessa intervista Murakami afferma, probabilmente con maggiore cognizione di causa, che pure il Giappone si è impoverito, premettendo come nel Sol Levante lo scenario si presenti diametralmente opposto: il paese ricco, la gente povera. Anche questa affermazione appare sconcertante. È evidente che Murakami pensa al rapporto tra debito pubblico, potere d’acquisto e risparmio privato, fattori che spesso non procedono di pari passo. Nondimeno, dalla nostra prospettiva di occidentali, è difficile comprendere come si possa separare con tale nettezza il dissesto finanziario di un paese dalla condizione delle persone che lo abitano, e non tanto per quel che attiene la valutazione dei fondamentali economici, quanto per la nozione di società che presuppone.

Japan Pop

Cosa significa allora per un Giapponese essere un individuo? E in quali termini si mette in relazione con la comunità cui appartiene? Fino a che punto il destino del singolo dipende dai molti, dai valori e dai codici in cui si identifica la moltitudine? Domande cui è impossibile abbozzare risposte attendibili a meno di non partire dalla consapevolezza del fatto che parliamo di una realtà «a dir poco sfuggente e magmatica», per usare la definizione che ne dà Gianluca Coci nella sua prefazione a Japan Pop, raccolta imponente e strepitosa di materiali sulla cultura contemporanea nipponica, scandagliata nelle sue sfaccettate forme, da quelle letterarie a quelle artistiche, cinematografiche e teatrali, non trascurando, s’intende, il territorio imprescindibile e variegatissimo rappresentato da manga e anime. Curiosamente l’immagine dell’Italia nel Sol Levante ha potuto conoscere un riscatto proprio grazie alla grande popolarità goduta in quel paese dalle nuvole disegnate. Il boom consumistico legato al made in Italy, fenomeno risalente agli anni novanta, ha trovato nei manga d’ambientazione italiana un volano fondamentale. E dire che ancora nel 1986 un sondaggio condotto da una rivista rivolta ai giovani imprenditori gli italiani comparivano al primo posto di una classifica per nulla gratificante, quella dei popoli più stupidi al mondo. Le ragioni di tanto discredito coincidevano più o meno con l’opinione espressa da Murakami: sono troppo euforici, non lavorano, pensano solo a mangiare e altre amenità di tenore analogo. Ma l’altro, si sa, è una proiezione: funge sempre da specchio e quel che in lui vediamo, o crediamo di vedere, riflette un rovescio di noi stessi che preferiremmo rimuovere. Vale anche in questo caso, e il saggio a firma di Toshio Myake, L’Italia dei manga: specchio identitario e convergenza mangaesque, ci regala un esempio emblematico citando due passi dal diario di Natsume Soseki. Siamo ai primissimi inizi del secolo, il Giappone vive l’era Meiji, una fra le più importanti della sua storia perché è in questo periodo che è andata compiendosi la trasformarsi in stato-nazione moderno. Mentre il processo di occidentalizzazione avanza spedito, Soseki viaggia in Europa ed ecco cosa scrive a Londra nel gennaio 1901: «Mi sembrava di vedere un uomo basso e particolarmente brutto che mi veniva incontro lungo la strada, solo per rendermi conto che si trattava di me stesso, riflesso in uno specchio. È solo venendo in questo luogo che ho realizzato che noi siamo veramente gialli».

ritratto di Soseki Natsume

Di tutt’altro tenore erano però le considerazioni appuntate un paio di mesi prima, in ottobre, alla stazione di Torino: «Guidato dal portantino, girai un bel po’ di tempo camminando in uno stato di sbalordimento. Finalmente mi pigiai dentro uno scompartimento in mezzo a “barbari pelosi”». È evidente che agli occhi di Sōseki l’Europa si presentava con due facce distinte, una che lo faceva sentire brutto e un’altra che invece gli appariva brutta di quanto lui si sentisse. Il che è come dire che rispetto a una avvertiva un senso d’inferiorità, mentre l’altra gli ispirava sentimenti diametralmente opposti. L’impressione dello scrittore era la logica conseguenza di quel che respirava in patria. Nel periodo Meiji giungevano consulenti da ogni parte dell’Occidente per fare del Giappone un paese nuovo, ma mentre britannici, francesi, prussiani e americani erano chiamati per occuparsi degli ambiti più moderni e strategici, gli italiani venivano selezionati in base alle competenze artistiche. Il Bel Paese come culla dell’arte e al contempo patria di gente brutta, sporca e forse pure cattiva o perlomeno indolente, può sembrare una contraddizione in termini o l’adozione acritica di uno stereotipo certamente già radicato in Europa. E tuttavia per meglio comprenderne la natura è necessario ricordare che l’Oriente può avere confini che trascendono la geografia. Dalla prospettiva di un Giapponese al cospetto dell’egemone identità occidentale, l’Oriente è tutto ciò che in qualche misura occupa una posizione di subalternità, e se l’Occidente si impone grazie al suo essere bianco, razionale, moderno, scientifico e virile, l’Oriente si definisce colorato, irrazionale, antico, emotivo, infantile e femmineo. L’Italia incarna dunque una sorta di Occidente, il che spiega la contraddizione ovvero perché i Giapponesi possano commiserarci e al contempo ammirarci. Passando in rassegna i manga di ambientazione italiana (e non sono pochi), Toshio Myake ricostruisce una Penisola esotica che non è ovviamente la nostra Italia, ma l’Italia dei Giapponesi. Questa insolita chiave di accesso ai segreti della cosiddetta J-culture è soltanto uno fra i molti e illuminati squarci contenuti nel volume curato Gianluca Coci, arricchito peraltro da numerose interviste, incluse quella in Murakami rievoca il suo viaggio nell’Occidente minore chiamato Italia.

A tal riguardo, vale la pena segnalare l’uscita di Belka, romanzo visionario e peripatetico di un autore, Furukawa Hideo, da molti considerato come l’unico vero erede di Murakami. Vi sono narrate le imprese di quattro cani straordinari appartenenti alle unità cinofile dell’esercito nipponico e lasciati al loro destino quando, nel 1943, durante la battaglia delle Midway, le truppe furono costrette alla ritirata dall’offensiva americana. Da quel momento, per quattro animali e i loro discendenti comincerà una lunga cavalcata attraverso la seconda metà del XX secolo che li vedrà protagonisti in tutti gli scenari di guerra, dalla Corea al Vietnam, all’Afghanistan. Li vedremo nelle file della polizia messicana che combatte i narcotrafficanti, come pure in quelle del KGB prima e delle mafie russa e cecena poi. Avventure e amori di cani nel tempo, con grandezze e miserie che stanno alle nostre storie un po’ come il Bel Paese sta al Sol Levante, come l’alterità della specie egemone, come uno specchio.

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