L’appunto d’obbligo in questi casi è: Nulla a che vedere col romanzo. Che scoperta. È evidente che il romanzo è un’altra cosa. Eppure, a dispetto dell’abisso che li separa, Il gande Gatsby iperpop e ultrakitsch di Luhrmann è una sua fedelissima trasposizione. Va da sé che nulla può essere meno pop e kitsch della scrittura elegante e calcolatissima di Fitzgerald. Altrettanto non si può però dire del suo contenuto. Sfrondato della sua raffinatezza stilistica, Il grande Gatsby è un melodramma perfetto. Feste sfarzose. Ricchi e arricchiti. Qualche gangster. Un amore reso impossibile dalla differenza di classe. Un adulterio. Due omicidi: uno volontario, l’altro colposo. E per finire un suicidio. Niente male per un romanzo tutto sommato breve. Che una simile concentrazione di eccessi passi quasi inosservata è un miracolo soltanto in parte merito dell’autore. Molto lo si deve al successo tardivo, al mito che ha fatto di Gatsby un sognatore esemplare, l’antesignano del giovane smodato e controcorrente, se non del giovane tout court. Non è per un caso se il giovane Holden, sempre pronto a disprezzare chiunque, l’idolatrasse. Nella sua lotta ostinata contro un nemico invincibile — il trascorrere del tempo — Gatsby anticipa una ben nota e abusata filosofia di vita: live fast, die young. Ma del mito cui darà vita, il libro regala poche e sfumate avvisaglie. Nonostante tutto, Il grande Gatsby di Fitzgerald resta un’opera tragica e al contempo leggiadra. Il Gatsby di Luhrmann, invece, non è né l’una né l’altra, ma proprio per questo è più aderente al suo mito. E dire che molti sono gli errori (o scelte discutibili) che si potrebbe rimproverargli. A cominciare da quando Gatsby appare per la prima volta al cospetto di Nick Carraway. In un tripudio di razzi e fuochi d’artificio, s’alzano inconfondibili le note di Rapsodia in Blu, che nell’estate del ’22, tempo dell’azione, George Gershwin non ha ancora composto. Un cameo non molto verosimile è poi la copia dell’Ulisse di Joyce (all’epoca irreperibile negli Stati Uniti) che spunta tra le letture di Nick.
Inezie, certo, e però acquistano un senso particolare se accostate all’incongruenza esilarante rappresentata dal personaggio di Wolfsheim. Nel romanzo è un ebreo; il film ce lo presenta invece incarnato da Amitabh Bachchan, una stella di Bollywood. Che ci fa un gangster indiano nell’età del jazz? Non certo evitare accuse di antisemitismo, come qualcuno ha ridicolmente supposto. È lì per affermare un’idea di cinema globale e popolare. Si pensi alla dimora di Gatsby; che la si debba immaginare pacchiana e lussuosa è detto pure nel romanzo. C’era però bisogno di farla assomigliare al castello della bella addormentata di Disneyland? Per i puritani del buon gusto, no. Ma Luhrmann non è regista per schizzinosi. È un sommo allestitore di parchi-spettacolo. Nel suo cinema, un’automobile degli anni ’20 sfreccia più veloce che nei vari Fast and Furious, la macchina da presa tiene il suo stesso passo, non sta ferma un attimo, ubriacando lo spettatore con gincane frenetiche. L’uso del 3D non ha alcuna ragione sensata se non quella di dare al film il sapore di un favola animata, di un romanzo pop-up. Parimenti, DiCaprio e Maguire non si sono guadagnati la parte perché bravi attori o perché adatti alla parte, ma per via di Titanic e Spiderman. Così come Jay-Z e Lana Del Rey fanno da colonna sonora non tanto perché è musica di oggi, ma perché è musica che si può sentire ovunque. Di tutto e di più, il criterio è questo. L’insieme ha una però sua cafonesca coerenza perché la grandezza di Gatsby, del personaggio cioè, consiste proprio nell’ignorare il senso del ridicolo. Il limite semmai è quello di non avere osato sino in fondo, vale a dire quanto avrebbe osato Gatsby.