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«Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, silenziosa luna?» si domandava a suo tempo un poeta. Cosa faccia è presto detto. Gira indefessa attorno al nostro pianeta mantenendosi a una distanza media di trecentottantaquattromila chilometri, illumina di luce riflessa le notti terrestri, determina maree ed eclissi, e non di rado accende le umane fantasie. A parte ciò non è che faccia molto. Del resto, cosa mai dovrebbe fare un satellite da sempre disabitato? Probabilmente, la più grande botta di vita conosciuta dalla Luna risale a qualche decennio fa, a quel breve periodo in cui l’umanità credé che la conquista dello spazio fosse ormai a portata di mano. Era il luglio del 1969 quando Neil Armstrong impresse la propria sul suolo lunare pronunciando una frase a effetto: «Questo è un piccolo passo per un uomo ma un grande balzo per l’umanità». Il mondo intero rabbrividì mentre immagini della storica impresa scorrevano sugli schermi televisivi. Tre anni e mezzo dopo, tutto era già finito. Il 19 dicembre 1972, al rientro sulla Terra dell’Apollo 17, l’ultima delle missioni lunari, già si presagiva che i viaggi interplanetari sarebbero rimasti una delle tante promesse mancate degli anni Sessanta. Per anni si è ritenuto che al momento di pronunciare la storica frase, Armostrong sia stato tradito dall’emozione e abbia commesso un errore, ovvero che non abbia detto «per un uomo» ma bensì «per l’uomo» ribaltando così il senso delle sue parole. Tempo fa un pignolo programmatore australiano passò però al setaccio le registrazioni accertando una volta per tutte che l’astronauta non commise alcun errore, disse effettivamente «per un uomo». Ma alla luce della fine che ha fatto il sogno spaziale, la frase più giusta sarebbe stata proprio quella sbagliata. Non ci fu nessun grande balzo, infatti. La conquista della Luna 1969 fu di un piccolo passo per tutti, sia per l’uomo Armstrong che per l’umanità nel suo complesso. Un passo molto caro, per giunta, visto che il programma spaziale arrivò al punto di inghiottire il cinque per cento del bilancio federale statunitense.

Nel luglio 1999, trenta anni esatti dopo il primo allunaggio, il giornalista Andrew Smith si reca nel bar di un albergo di Londra per incontrare Charlie Duke, il decimo uomo ad aver messo piede sul nostro satellite. L’intervista è però turbata da una brutta notizia comunicata a Duke per telefono: Pete Conrad, il comandante della missione Apollo 12, è morto in seguito alle ferite riportate in un incidente stradale. «Ora siamo rimasti soltanto in nove» commenta lo sconsolato ex astronauta. Le parole hanno un certo effetto su Andrew Smith, il quale inizia a meditare su quel triste dato: in tutta la Storia, soltanto dodici uomini avevano provato l’ebbrezza di camminare su un corpo celeste. Tre di essi sono già morti, gli altri sono ormai piuttosto in là cogli anni. Ben presto non ne rimarrà nessuno. Smith ha così deciso di mettersi sulle tracce di questi sopravvissuti per sapere cosa ne è stato di loro. Ne è scaturito un volume che è al contempo un reportage, una biografia collettiva e una sorta di «American graffiti» in chiave spaziale intitolato Polvere di luna. È lo stesso autore a domandarsi cosa lo abbia spinto a tornare indietro nel tempo e alle missioni Apollo. La risposta che si dà è praticamente scontata: quegli astronauti hanno incarnato l’innocenza di un’epoca gravida di sogni. «Brutture ne accadevano in quantità, come sempre» scrive Smith, «ma per un breve periodo la gente cercò di convincersi che questi orrori andavano contro l’ordine naturale e il percorso dell’umanità, come se si opponessero al conseguimento della sua espressione più perfetta, ma il progresso avrebbe vinto un giorno, liberatorio e inevitabile. Per me, i custodi di questa idea radicale e ottimistica erano gli astronauti lunari e i figli dei fiori: entrambi promettevano futuri luminosi che in seguito furono screditati e abbandonati». Ma se da un lato nessuno si meraviglia che molti hippy abbiano fatto una brutta fine, dall’altro sorprende un poco che gli eroi delle missioni Apollo non se la siano passata molto meglio una volta tornati nell’alveo della vita terrestre. C’è chi ha conosciuto il tunnel dell’alcolismo e della depressione, chi è divenuto un feroce critico della NASA, chi ha cominciato ad asserire di avere udito il sussurro di Dio, chi è stato eletto senatore solo per rimanere deluso e frustrato dagli ambienti politici, chi si è dato alla pittura, chi è andato semplicemente alla deriva.

Si dirà che simili reazioni erano prevedibili. Dopo aver compiuto un’impresa tanto unica come quella di fare quattro salti sulla Luna, quali altri obiettivi può mai prefiggersi una persona? Forse è così. Ma è forse ancor più verosimile che se il programma spaziale non fosse stato accantonato, questi uomini avrebbero conosciuto ben altri destini. Sarebbero stati i pionieri di una nuova frontiera, anziché eroi dimenticati. Perché la verità è che quasi nessuno oggi ricorda il nome di questi astronauti, a parte quello di Neil Armstrong. Viene quasi da sospettare che la loro memoria sia stata rimossa dall’immaginario contemporaneo in quanto simbolo dei fallimenti di un’intera epoca. Per una strana coincidenza la prima missione Apollo a essere cancellata avrebbe dovuto partire nel luglio 1972. Secondo alcuni quella data segna la nascita dell’era postmoderna, quantomeno in architettura. In quel mese, a St. Louis, Missouri, fu infatti abbattuto mediante cariche esplosive il Pruitt-Igoe, un complesso residenziale concepito per diventare un modello di edilizia pubblica e che nello spazio di pochi anni degenerò invece in un disastro fatto di degrado, sporcizia e criminalità. Quando questo ricettacolo urbano di disperazione fu raso al suolo, si pensò che l’idea modernista di progettare a priori e su basi razionali la città ideale fosse tramontato per sempre.

La sensazione che si fosse giunti alla fine di un percorso appena iniziato dominò il clima di quel fugace lasso di tempo in cui gli Stati Uniti spedirono i loro astronauti sulla Luna. In quei tre anni e mezzo, un fan nero dei Rolling Stones fu picchiato a morte, i Beatles si separarono con acrimonia, la controcultura conobbe un inesorabile e a tratti violento declino, lo scandalo Watergate si profilò all’orizzonte, i conflitti razziali subirono una brusca impennata, il mondo occidentale cominciò a non avere più molta fiducia nella natura umana. È dunque comprensibile che Andrew Smith si ponga il seguente dubbio: «Quel tempo, quelle energie, quel denaro, quelle vite: tutto sprecato?» Poiché nessuno più degli astronauti incarnava le speranze che si riponevano nel futuro e nel progresso, le missioni Apollo diventarono presto uno fra i più ingombranti ricordi di un’era di mancate promesse. La conquista della Luna era inoltre il ricordo di cui ci si poteva sbarazzare con più facilità, in quanto l’impresa di Neal Armstrong e dei suoi colleghi era davvero poca cosa se paragonata a quelle di Star Trek e dei tanti film di fantascienza di allora. Consapevolmente o no, si cercò quindi di rimuovere al più presto quel sogno andato a male. Un atteggiamento che si è prottratto nel tempo, visto che la NASA giunse a ammettere di avere smarrito molti filmati della prima spedizione sulla Luna.

Nella prima parte degli anni Settanta si rimosse però anche altro. Basti pensare al disastro del Vietnam. Questa assurda guerra mai formalmente dichiarata era stata un simbolo non meno potente degli astronauti — seppure in negativo — dei sogni di allora. L’opposizione alla guerra cementò le varie anime della controcultura, diventando una bandiera della voglia di opposizione e cambiamento. Il governo statunitense fece di tutto lasciarsi alle spalle il Vietnam non soltanto perché era una guerra persa, ma anche perché aveva indirettamente minato la fiducia dell’opinione pubblica in un modello economico e sociale che andava difeso a ogni costo, il cosiddetto American way of life. Un chiaro esempio dell’opera di rimozione e censura sul Vietnam è contenuta in Diaro dell’apocalisse. Si tratta del diario che Eleonor Coppola tenne nelle Filippine mentre il marito Francis Ford girava Apocalypse Now, il film che per primo e meglio di qualunque altro mostrò cosa era stato quel conflitto. Fu una produzione travagliata che rischiò di non vedere mai la luce e di trascinare il regista alla bancarotta poiché si era esposto finanziariamente in prima persona. Tra i tanti problemi, ci fu anche quello degli elicotteri, una presenza essenziale nel film. Il governo americano rifiutò qualunque tipo di collaborazione. Coppola scrisse perfino una lettera di protesta chiedendo come mai non potesse prendere in affitto materiale dell’esercito americano come era stato fatto per Berretti Verdi. «Sembra quasi che ci sia una sorta di censura da parte del ministero della Difesa» annotava nei suoi diari la moglie del regista; «per i film sulla Seconda guerra mondiale sono sempre disponibili ad aiutare in ogni modo».

La rimozione del Vietnam e della conquista spaziale sembrano prendersi per mano in Apocalypse Now. Si tratta soltanto di una serie di semplici, ma comunque interessanti coincidenze. La prima: inizialmente Coppola aveva offerto la regia del film a George Lucas che rinunciò in quanto stava per imbarcarsi nella saga spaziale di Guerre Stellari. La seconda riguarda invece la voce narrante fuoricampo: questo tratto stilistico di Apocalypse Now verrà ripreso pochi anni dopo da Ridley Scott in Blade Runner, il film che rappresenterà in forma forse definitiva la fantascienza e il futuribile come una Babele di rovine, risultato non di chissà quale conflitto apocalittico ma semplicemente di un’idea di futuro ormai logora. A forza di sognare mondi migliori di quello presente, il futuro aveva smesso di essere quello che era una volta. Cos’era dunque Blade Runner se non un’apocalisse del qui e ora? Infine, il colonnello che in Apocalypse Now informa il capitano Willard della missione assegnatagli — inoltrarsi in territorio cambogiano per uccidere il misterioso Kurtz — fu chiamato Lucas in omaggio al regista di Guerre stellari. Ma non solo, il ruolo di Lucas fu affidato allo stesso attore che avrebbe poi vestito i panni del protagonista in Blade Runner, Harrison Ford.

Certo, quegli anni di amare e violente disillusioni sono ormai storia passata e cercare di intravedere chissà quali significati nel casuale intrecciarsi delle cose è ozioso. Ma possiamo esserne davvero sicuri? Il Pruitt-Igoe fu progettato da Minoru Yamasaki, lo stesso architetto che ha progettato anche il World Trade Center. A parte la sfortuna di questo signore, che in un modo o nell’altro ha visto crollare le sue più imponenti costruzioni, va ricordato che tra le tante dietrologie intorno all’Undici settembre ce n’è una in base alla quale le Torri gemelle non si sarebbero accasciate in seguito all’impatto degli aerei, bensì per l’esplosione di alcune cariche sistemate nelle fondamenta dei due edifici, cariche dello stesso tipo usato per la demolizione del complesso residenziale di St. Louis. Semplici coincidenze, è vero, ma val comunque la pena di considerare che il passato è come un morto vivente: a volte ritorna.

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