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Quanto durerà il romanzo? Nel tardo secolo scorso, quando le speculazioni teoriche su arte e letteratura godevano ancora di un prestigio quasi indiscusso, la morte del romanzo era tra i temi più in voga, se non il tema per eccellenza. La scomparsa che allora si paventava o auspicava era tuttavia di gran lunga più teorica che effettiva. Che molte sue giunture sembrassero (e fossero) arrugginite è naturalmente innegabile, come era acclarata la difficoltà nel tenere il passo di nuovi e più efficaci mezzi di rappresentazione e intrattenimento. Nondimeno romanzi di ogni tipo seguitavano a essere letti e scritti in misura sufficiente perché questa morte restasse qualcosa sulla quale ragionare con gusto e passione, ma senza crederci davvero. Volendo tentare un paragone, il romanzo si trovava nella condizione di un individuo che abbia imboccato da tempo il viale della mezza età, una fase dell’esistere in cui la morte appare per forza di cose più vera e prossima, ma proprio per questo comporta un attaccamento alla vita più pervicace di quello che si conosce da giovani. Il romanzo era dato per morto ma non ci teneva affatto a morire, e tale era il suo imbolsito vigore che, nell’accezione comune del tardo Novecento, lo scrittore era in sostanza il romanziere. Non a caso lo scorso secolo abbonda di scrittori che si sono sentiti negletti proprio perché scrivevano altro. Esemplare il patimento di John Cheever, a lungo convinto che un autore di racconti dovesse scrivere un romanzo per essere prese sul serio. La situazione odierna è all’incirca la stessa, malgrado siano sempre più sfumati, se non venuti meno, i confini entro i quali un testo letterario possa definirsi romanzo. L’elemento di novità è rappresentato dal fatto che dalla pura speculazione novecentesca si è passati a una forma di imminenza; l’agonia del romanzo non è più soltanto un pensiero, la consapevolezza di un destino che, seppur certo, non condiziona più di tanto il presente. Dal viale pacioso della mezza età, il romanzo è entrato repentinamente nel vicolo cieco della malattia terminale.

In effetti, il vero agonizzante non è il romanzo in senso stretto bensì una certa idea di libro, e sarebbe pertanto più corretto dire che quanto va morendo è prima di tutto un modo di leggere, il modo che incarnava nel romanzo un ideale di libro, un modo dedito e concentrato. Alcuni sostengono (a torto) che la lettura dedita e concentrata sia stata soppiantata dalle poderose architetture narrative delle serie televisive di ultima generazione. Altri (e sbagliano anch’essi) ritengono che il colpo ferale sia stato sferrato col passaggio dal libro cartaceo a quello elettronico. Altri ancora puntano il dito verso la connessione elettronica in generale, ovvero verso quella nuova dimensione in cui narrare, comunicare e leggere si fondono in una sola e ibrida attività. Qualunque opinione si possa avere in proposito, resta che il romanziere non sarà più la figura centrale di un tempo. Probabilmente seguiterà a esistere ancora a lungo, ma diventerà sempre più marginale e inattuale, conoscendo un destino non molto diverso a quello già vissuto dai poeti. Al suo posto emergerà uno scrittore di nuovo tipo, in bilico tra più forme, più incline al divagare che al puro narrare, più somigliante a un flâneur del villaggio globale che a un costruttore di trame. Come molte altre persone nate nel secolo precedente, Geoff Dyer si è affacciato alla letteratura pensando «che essere uno scrittore significasse scrivere romanzi; altrimenti eri un critico che scriveva a proposito dei romanzi degli scrittori». Fu soltanto dopo un periodo di formazione successivo agli studi universitari – periodo trascorso campando di sussidi a Brixton – che Dyer si rese conto di poter aspirare a un modo alternativo di essere scrittore, «una specie di saggista ingegnoso – la definizione è rubata a Aldous Huxley – quanto basta per cavarsela scrivendo un tipo di narrativa assai limitato». Di romanzi al suo attivo, Dyer ne ha quattro: tutti sostenuti da una prosa elegante e uno sguardo attento, tutti più o meno autobiografici, tutti degni d’interesse ma nessuno particolarmente memorabile in quanto romanzo.

Più cospicuo è il corpo dei libri da saggista ingegnoso. A oggi si contano i seguenti sette, elencati in ordine sparso: un libro sul jazz a cui deve buona parte della sua fama; un libro sulla fotografia, sua grande passione; un libro dedicato a Stalker di Tarkovskij, suo film preferito; un libro di viaggio, sua attività principale; un libro su John Berger, suo mentore; un libro su David H. Lawrence, suo modello di riferimento; un libro di carabattole, per usare la sua definizione. Di questi sette, l’ultimo, Il sesso nelle camere d’albergo, malgrado non sia il migliore, è quello che meglio rappresenta cosa significhi per Dyer essere uno scrittore: una scarsissima o nulla propensione a vedersi come un romanziere di lungo corso cui si contrappone la voglia di «non avere una carriera», di evitare «specializzazione o continuità fuorché quelle dettate dal mio desiderio di scrivere a proposito di qualunque mi interessasse in un determinato momento». Naturalmente un titolo tanto lubrico e ingannevole è una fortuna di cui gode il solo lettore italiano. L’argomento principale non è affatto il sesso, presente quanto potrebbe esserlo in qualunque libro che non sia un romanzo e non abbia quale oggetto di riflessione il sesso. Vi è sì una digressione narrativa di cinque pagine nella quale gli alberghi vengono identificati come «sinonimo di sesso», ma anche qui, più che parlare di sesso, Dyer si sofferma su altro: sulla morbidezza degli accappatoi degli alberghi, sulla pulizia in generale delle stanze di alberghi (o di certi alberghi perlomeno), sullo spossessamento di sé che implica il diventare ospite di un albergo, sulla tendenza delle rockstar a distruggere stanze di alberghi e su altre caratteristiche che rendono la stanza di un «albergo costoso» un luogo particolarmente erotico. Per il resto, il volume offre una cospicua serie di carabattole dedicate alla fotografia e più in generale all’immagine; un’altra serie votata alla letteratura e comprendente brevi saggi in origine concepiti come prefazioni a libri di autori quali D. H. Lawrence, Francis Scott Fitzgerald, John Cheever e altri; una brevissima serie d’argomento musicale e due serie conclusive, la prima dai contorni oltremodo sfumati, l’ultima di ordine personale ovvero diaristico o quasi diaristico.

Sembra dunque evidente che il volume è un condensato, sia degli interessi di Dyer, sia del suo modo di interessarsi. Il titolo originale, Otherwise Known as the Human Condition, esprime tanto le sue inclinazioni che il modo di coltivarle in termini così espliciti da risultare dottrinale, se non addirittura pedante. Quello dell’edizione italiana, seppure scelto per ovvi fini, offre invece una dimostrazione pratica e sbarazzina del gusto innato alla dispersività tipico di Dyer, ovvero il non essere mai nel posto dove afferma di essere; il parlare sempre d’altro, per esempio di sesso quando si ripromette di parlare di alberghi, salvo tornare agli alberghi non appena il sesso minaccia di diventare il tema principale. Nel linguaggio comune, un simile modo di procedere viene chiamato «andare fuori tema», ma si potrebbe anche usare una definizione più in voga, off topic, che di fatto significa la stessa cosa. Non per niente il suo capolavoro misconosciuto – pubblicato nel 1997 ma ancora in attesa di un traduzione italiana – resta Out of Sheer Rage, il suo libro su D. H. Lawrence o, per meglio dire, il racconto di come il suo proposito di scrivere un libro su D. H. Lawrence sia stato sistematicamente procrastinato, eluso e ostacolato da altri propositi più o meno passeggeri o velleitari. L’atteggiamento di Dyer rientra certamente in una tradizione precisa che vanta precedenti illustri: da Nietzsche a Benjamin, per arrivare a maestri più recenti quali Sebald e il già ricordato Berger. Ma diversamente da costoro, la sua scrittura errabonda e frammentaria non è mai funzionale a un pensiero né serve a mostrare ciò che altrimenti sarebbe difficile dire, è più semplicemente un’amorosa erranza, la ferma determinazione a vivere e scrivere in un perenne quanto sensuale stato di incertezza e dispersione, uno stato nel quale Dyer stesso intravede i segni di «un modo di essere abbastanza rappresentativo dell’uomo di Lettere di fine-XX-inizio-XXI-secolo», lo scrittore della morte del romanzo, quella vera stavolta.

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