Cosa fa la realtà nel cuore della notte, mentre ce ne stiamo acquattati e acquietati nei nostri sonni? Trascorriamo quasi un terzo della vita dormendo, ciò nonostante quasi mai restiamo sorpresi dal modo brutale in cui, non appena svegli, il mondo là fuori si affretta ad ammassarsi nella nostra coscienza, occupando più spazio possibile e assoggettando i sensi. Non di rado la realtà ci appare disagevole e insopportabile, per non dire ingiusta, ma lasciamo comunque che abbia ragione su tutto. Immaginiamo e desideriamo mondi fantastici e alternativi, eppure non esitiamo ad adeguarci a quello che ci è toccato in sorte. Perché siamo così rassegnati, quando non ci sono scienze né filosofie che possano resistere a un’obiezione tanto ovvia e immediata quanto quella che la realtà in cui crediamo di esistere sia solo illusione, la magia perversa e sofistica di una qualche sadica entità? Anche il «penso dunque sono» di Cartesio traballa come un castello di carte se lo si colpisce nelle fondamenta alla maniera di Rimbaud: «È falso dire: io penso. Si dovrebbe dire: io sono pensato». Eppure. Ma non è stato così da sempre. C’è stato un tempo, un lunghissimo tempo, in cui qualunque cosa era ritenuta possibile e il mondo era popolato dalle creature più bizzarre e governato da potenti incantesimi, un’epoca in cui le mappe erano approssimazioni e i confini di ciò che si conosceva erano segnati soltanto da un monito: «Da qui in avanti i draghi». Quest’era dei miracoli è stata però spazzata via con pochi battiti di ciglia dall’era della ragione, il tempo dove non c’è mai abbastanza tempo, dove non esiste luogo del pianeta che non sia scrutato al dettaglio dai satelliti che girano in tondo sopra le nostre teste. È il tempo in cui si mappano galassie sperdute che mai visiteremo; il tempo in cui si approntano grafici e diagrammi di tutti tipi per tutto ciò che crediamo di sapere. Il tempo reale, il nostro tempo. Nell’era dei miracoli la realtà era fragile. Forse non esisteva nemmeno e, semmai esisteva, era comunque un perenne ostaggio della magia. Nell’era della ragione la magia ha invece cessato di esistere e ogni qualvolta si è cercato di farla tornare tra noi, la realtà è sempre stata lì, pronta a ridicolizzarla, a bollarla come paccottiglia del sapere, una forma di conoscenza che nella migliore delle ipotesi può essere usata per truffare gli ingenui. Oggi le uniche formule cui si dà credito sono quelle esprimibili in termini matematici, i miracoli sono competenza della tecnologia, mentre gli incantesimi sopravvivono solo in forma mediatica. Continuiamo così a dare nomi ai nostri figli, facendo finta di ignorare che viviamo per lo più come numeri. Questo è ciò che chiamiamo realtà.
In virtù dei meccanismi perversi che garantiscono il funzionamento della più implacabile e potente legge dei numeri al momento in circolazione — l’economia di mercato — la negazione della realtà viene usata a piene mani quando si tratta di alimentare le casse del capitalismo avanzato. Gli spot commerciali pullulano di fenomeni che trascendono l’ordinario. Assistiamo allo spettacolo quotidiano e avvilente di rotoli infiniti di carta igienica che si abbarbicano morbidamente su grandi edifici, di eleganti barche a vela che navigano beate su strade d’asfalto, di ragazze di impossibile bellezza che camminano sulle acque e di mille altre manifestazioni del fantastico che fanno a gara per convertire in denaro ansie e desideri di cui potremmo fare a meno. Questo asservimento dell’immaginazione alle logiche del profitto e della sperequazione è tanto più inaccettabile quanto più il bisogno di fuga o di riscatto da una realtà disumana si rivela insopprimibile. Sembra dunque ogni giorno più vera — più tragicamente vera — l’affermazione di J. A. Rony per cui «la civiltà ha dissipato la finzione della magia soltanto per esaltare, nell’arte, la magia della finzione». Non solo nell’arte, verrebbe da aggiungere. Ed è per le stesse ragioni che le parole poste da André Breton in apertura al primo Manifesto del Surrealismo, redatto nel 1924, suonano ancora tristemente attuali: «Tanto credito prestiamo alla vita — a ciò che essa ha di più precario: la vita reale, naturalmente — che quel credito finisce per perdersi. L’uomo, questo sognatore definitivo, di giorno in giorno più scontento della sua sorte, fa a stento il giro degli oggetti di cui è stato portato a fare uso, e che gli sono stati consegnati dalla sua incuria».
Piet Mondrian, l’artista che più di ogni altro ha contribuito, almeno in apparenza, a tradurre in pittura il credo razionalista della modernità, non si faceva scrupolo di costatare che «in fondo siamo tutti surrealisti». Ciò non ha impedito che il surrealismo fosse visto con scetticismo per via dei profondi legami con la cultura romantica e di un discusso attivismo sociale e politico. Mondrian non intendeva però riferirsi alle specifiche connotazioni del movimento, bensì a una sorta di estetica ovvia e naturale in base alla quale l’essere umano tende per istinto e per definizione al superamento della realtà, al sogno per l’appunto. Da questo punto di vista, un senso non molto diverso va ricercato in ciò che rispose Marcel Duchamp la volta che gli venne chiesto quale fosse la sua idea di magia: «Anti-realtà». Del resto, il surrealismo non ha mai avuto i contorni definiti che generalmente caratterizzano i movimenti artistici. Non a caso il manifesto di Breton apparve in un momento in cui le avanguardie cominciavano a perdere buona parte della loro spinta propulsiva, della loro fiducia nelle utopie moderniste. L’arte stava preparando il suo «ritorno all’ordine», e il classicismo riscoperto da Picasso e de Chirico avrebbe anticipato, seppur involontariamente, il clima che determinò la svolta autoritaria di molti governi degli anni Trenta. Lo stesso Breton nel secondo manifesto del 1930 non mancò di sottolineare che il surrealismo aveva teso a provocare «una crisi di coscienza della specie più generale e più grave». Il che permette di individuare nel movimento i primissimi sintomi di un malessere destinato a prendere forma più compiuta e generalizzata decenni dopo, nel secondo dopoguerra, al di là dell’oceano: quel malessere postmoderno che accese la miccia delle nuove rivoluzioni degli anni Sessanta, da quella psichedelica all’amore libero. Ha senza dubbio ragione Maurice Blanchot quando sostiene che il surrealismo non fu «né un sistema, né una scuola, né un movimento artistico e letterario, ma una pratica d’esistenza, una pratica d’insieme che recava il proprio sapere». Breton si poneva in effetti problemi che determinavano scelte solo in parte definibili esteticamente. La sua ambizione era quella di elaborare una nuova forma di conoscenza, mettere sotto processo la realtà e il modo in cui ci siamo abituati a concepirla e percepirla, al fine di restituire all’essere umano una centralità andata perduta o dimenticata. Un simile obiettivo non poteva prescindere da un disegno eversivo di portata sociale e, quindi, da una militanza politica molto marcata. È un fatto che la rivoluzione surrealista si sia organizzata alla stregua di un vero e proprio partito, ed è un altro fatto che la sua dimensione poetica abbia implicato considerazioni non specificamente artistiche o letterarie, come il rifiuto di una cultura di classe: «I classici che si è scelta la borghesia non sono i nostri» scriverà per esempio André Breton.
Ma se si vuole penetrare davvero nel cuore del pensiero surrealista — nel suo nuovo umanismo, una visione del mondo dove l’essere umano torna a essere il centro delle cose — è necessario tenere a mente che la battaglia ingaggiata contro la realtà non è che la conseguenza inevitabile del dualismo che oppone ragione e magia. André Breton conveniva con Lévi-Strauss nel ritenere che «tutte le operazioni magiche si fondano sulla restaurazione di un’unità, non perduta (perché niente va mai perduto) ma incosciente». Era inoltre d’accordo con Freud quando questi stabiliva che «il principio che regge la magia, la tecnica del modo di pensare animista, è quello della onnipotenza delle idee». Unità dormiente da un lato e potenza delle idee dall’altro sono i due pilastri sui quali poggia l’edificio surrealista, nonché il grande baratro in grado di far sprofondare la realtà di cui ci siamo circondati per immiserire le nostre esistenze. Motore di tutto dovrebbe dunque essere il pensiero magico, anche se Breton non può fare a meno di considerare che la magia è «una di quelle idee confuse di cui crediamo di esserci sbarazzati e che, di conseguenza, facciamo fatica a concepire. È oscura e vaga, eppure di un uso estremamente determinato. È astratta, eppure piena di concretezza». Un concetto ambiguo e sfuggente, fatto di tutto e di niente, che è però l’essenza stessa dell’arte e della poesia, perché «artisti e poeti non proverebbero minore difficoltà se gli si chiedesse di dare un nome a ciò che per avventura si impadronisce di loro e li porta in alto, conferendo ai loro accenti la più grande e incontestabile significatività. Anche la parola ispirazione non dà conto di niente». Prima ancora che di pensiero magico — un campo d’indagine tutto sommato buono più per gli antropologi che per una rivoluzione della conoscenza — bisognerebbe allora parlare di arte magica, perché se il pensiero ha definitivamente sposato le cause della ragione relegando la magia a una fase primitiva, selvaggia o comunque arretrata della civiltà, l’arte continua a seguire leggi proprie e indipendenti. «Decida o no di adattarsi a finalità magiche, non possiamo dimenticare che essa trae comunque la propria origine dalla magia stessa: anche se pretendesse di essere puramente realista, niente potrebbe far sì che non debba alla magia la maggior parte delle sue qualità». André Breton affrontò la questione dell’arte magica in un libro segnato da un destino strano e difficile, un’opera rimasta per decenni un oggetto di culto riservato ai bibliofili. Nel 1953 il Club Français du Livre pensò di mettere in cantiere un storia generale dell’arte in cinque parti da riservare ai soci più fedeli. Il progetto non rispondeva ai consueti criteri scientifici. Diciamo pure che non fu stabilito alcun criterio se non quello di individuare cinque modi possibili di guardare all’arte e di affidare la disamina di ciascuna di queste «visioni» ad autori che avrebbero operato in piena autonomia e senza particolari condizionamenti. L’art magique di André Breton fu il primo di questi volumi e l’unico a essere ricordato nel tempo. Venne stampato in una tiratura limitata, tremila copie appena, e fu ristampato solo nel 1991, in occasione di un’importante mostra organizzata dal Centre Pompidou di Parigi.
A onor del vero, Breton non pensava affatto a una diffusione tanto rarefatta, né fu particolarmente soddisfatto quando il volume stampato giunse nelle sue mani. Egli si era immaginato «un veicolo dello splendore», un libro in cui immagini e testo fossero trattati con pari dignità. L’apparato iconografico della prima edizione fu invece limitato, per ragioni di tempo e di spazio, a una serie di vignette in bianco e nero, serie peraltro parziale e accompagnata da didascalie approssimative, se non sbagliate. Breton morì nel 1966 senza poter coronare il sogno di una nuova edizione più in sintonia coi suoi desideri. Come si è detto, il libro, L’arte magica, ha guadagnato la veste che gli era propria solo molto più tardi. Il volume è un succedersi di luminose riproduzioni che abbracciano l’espressione artistica di tutti i continenti lungo un arco di tempo che, partendo dall’alba della civiltà, si distende fino ai maestri delle avanguardie: pitture parietali australiane, maschere di danze esquimesi, prue di piroghe maori, ciottoli e teschi dipinti che si accompagnano al Giardino delle delizie di Bosch, ai Coniugi Arnolfini ritratti da Van Eyck, al Vampiro di Munch, ai tarocchi. Un viaggio che è un’autentica magia per lo sguardo e che non intende affatto essere una storiografia attendibile. Quale storia dell’arte può infatti pensare di escludere gente del calibro di Michelangelo o Botticelli, il quale con la sua Primavera non avrebbe di certo sfigurato nel parterre della magia?». Ma L’arte magica è anche questo. Nonostante segua un percorso vagamente cronologico, tratteggia comunque una storia sbilanciata, anarchica e arbitraria. Fedele soltanto al «vero meraviglioso, quello della poesia che incanta la vita quotidiana», Breton opera una decisa discriminazione tra magico e religioso, tra due mondi che pure hanno molti domini in comune. Nella sua visione la religione comporta «una grande rassegnazione: da essa l’uomo deve aspettarsi solo implorazioni, e penitenze che egli stesso si infligge. La sua umiltà è totale, perché lo sprona a ringraziare anche per le sue disgrazie». La magia invece, essendo fedele a un unico dogma, quello per cui «il visibile è la manifestazione dell’invisibile», è espressione di una volontà forte e «presuppone la protesta, anzi la rivolta». Sotto alcuni aspetti, quella di Breton non è nemmeno una lettura dell’arte in chiave magica ma, come azzarda Legrand, solo «una libera escursione di una mente libera in un territorio a lei familiare». Il motivo di fondo, anche se sottaciuto, rimane infatti quello della rivolta contro «l’imperialismo matematico», il sovvertimento della realtà perseguito con le forze dell’immaginazione. Tornano così alla memoria i fantasmi e i sogni perduti di un’intera epoca. In molti si domanderanno se sia ancora possibile credere in una simile rivoluzione; se c’è ancora qualcuno, in questo mondo e di questi tempi, disposto a credere all’amore libero e alla fantasia al potere. Ma anche non volendo credere, rimane il fatto che la nostra condizione di sognatori è definitiva. Rimane il fatto che in fondo siamo tutti surrealisti o faremmo bene a esserlo, perché l’attuale realtà non è certo il migliore dei mondi possibili, che è poi la ragione per cui le parole finali del primo manifesto bretoniano non hanno perso nulla della loro magia: «Il surrealismo è il raggio invisibile che un giorno ci permetterà di avere la meglio sui nostri avversari. Tu non tremi più, carcassa. Quest’estate le rose sono azzurre; il bosco è vetro. La terra drappeggiata nelle sue fronde mi fa tanto poco effetto come un fantasma. Vivere e cessare di vivere, sono soluzioni immaginarie. L’esistenza è altrove».