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Se mai si ten­tasse un cen­si­mento delle ipo­tesi più esplo­rate dalla let­te­ra­tura ucro­nica, al primo posto figu­re­rebbe pro­ba­bil­mente, se non cer­ta­mente, quella pro­po­sta da Sar­ban in un suo breve romanzo, Il richiamo del corno, vale a dire l’ipotesi di un mondo più o meno avve­ni­ri­stico sul quale ancora imper­versa una Ger­ma­nia nazi­sta uscita vin­ci­trice dalla guerra ovvero risorta dalle ceneri della scon­fitta. Le ragioni sono ovvie solo in appa­renza o, per meglio dire, la loro appa­rente ovvietà spiega sol­tanto in parte la fasci­na­zione di un Terzo Reich non domo, di un Hitler scam­pato alla morte o clo­nato in decine di esemplari. Imma­gi­nare sce­nari alter­na­tivi è pra­tica antichissima. Le spe­cu­la­zioni di Ero­doto sulle con­se­guenze di un’eventuale vit­to­ria dei Per­siani a Mara­tona o quelle di Tito Livio su Ales­san­dro Magno nella sua Sto­ria di Roma non sono che due esempi di un modo di ragio­nare per­du­rato fino all’Ottocento, quando la sto­rio­gra­fia, diven­tata più scien­ti­fica, lasciò che a occu­parsi di ipo­tesi oziose e non veri­fi­ca­bili fos­sero per­lo­più i roman­zieri. In quanto genere stret­ta­mente let­te­ra­rio, la sto­ria alter­na­tiva, o fan­ta­sto­ria che dir si voglia, è dun­que rela­ti­va­mente gio­vane. Deve il suo nome a Uchro­nie, romanzo di Char­les Renou­vier pub­bli­cato nel 1876. Ciò signi­fica che pre­cede di mezzo secolo la nascita del ter­mine science fic­tion, anche se ha poi finito per esi­stere all’ombra di quest’ultimo, quasi sia una decli­na­zione della fan­ta­scienza anzi­ché un genere a sé. E in effetti, pur spe­cu­lando sul pas­sato, l’ucronia guarda spesso al futuro, il che dice molto sulla spe­ciale pre­di­le­zione per il più trau­ma­tico fra gli snodi della sto­ria recente. Molto ma non tutto.

Alla memo­ria ancora viva di quei tra­gici eventi va aggiunto un altro aspetto, forse per­fino più impor­tante sul piano della sug­ge­stione fan­ta­scien­ti­fica. Il nazi­smo non si con­ten­tava di domi­nare in patria; voleva sog­gio­gare il mondo per rifor­giarlo a sua imma­gine e somi­glianza, eli­mi­nando l’inemendabile. In que­sto folle dise­gno la scienza e il pro­gresso tec­no­lo­gico erano mac­chine da guerra impre­scin­di­bili, stru­menti al ser­vi­zio di una con­ce­zione per­ver­sa­mente este­tiz­zante della Storia. Un mira­bile esem­pio in que­sto senso è rap­pre­sen­tato dalle imma­gini che Hugo Jae­ger scattò dal 1936 al 1945. Jae­ger non fu sol­tanto il foto­grafo per­so­nale di Hitler, fu anche uno dei pochis­simi foto­grafi dell’epoca a lavo­rare con pel­li­cole a colori. Le sue foto sono giunte a noi in modo avven­tu­roso. Al ter­mine della guerra, pas­sa­rono inos­ser­vate a un gruppo di sol­dati ame­ri­cani per­ché la vali­gia in cui erano nasco­ste con­te­neva anche una bot­ti­glia di cognac. Furono quindi messe in una doz­zina di barat­toli di vetro e sepolte nei pressi di Monaco, dove resta­rono per un decen­nio, quando Jae­ger le rie­sumò per tra­sfe­rirle in un caveau. Tra­scorso un altro decen­nio ven­nero ven­dute alla rivi­sta «Life», che le ha pub­bli­cate solo pochi anni fa, nel 2009. Le abbiamo per­ciò sco­perte e osser­vate con la memo­ria ormai piena di imma­gini in bianco e nero o ritoc­cate. Non cono­scendo la loro sto­ria, sarebbe facile scam­biarle per falsi. La qua­lità cro­ma­tica così stra­bi­liante, così simile alle patine anti­chiz­zanti degli odierni dispo­si­tivi digi­tali, sem­bra strap­pare que­ste imma­gini impa­ve­sate di sva­sti­che al pas­sato cui in effetti appar­ten­gono, con­se­gnan­dole allo stesso non-tempo ambi­guo in cui abita l’ucronia.

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E se le foto di Jae­ger non bastas­sero, si pensi a Swastika Night, romanzo dell’inglese Kathe­rine Bur­de­kin ambien­tato in un futu­ri­stico anno del Signore Hitler 720 in cui il Reich e l’Impero giap­po­nese si sono spar­titi il pia­neta, e le donne, con­si­de­rate un errore di natura, vivono segre­gate in ghetti e hanno con­tatti col sesso maschile sol­tanto per essere fecon­date. Essendo stato scritto nel 1935 e pub­bli­cato due anni dopo, quando il Füh­rer era ancora al potere, non può essere con­si­de­rato un’ucronia, ma somi­glia mol­tis­simo, per temi e atmo­sfere, agli sce­nari alter­na­tivi imma­gi­nati nella seconda metà del Nove­cento. Se le pre­vi­sioni di Swa­stika Night si sono rive­late for­tu­na­ta­mente errate, in com­penso hanno anti­ci­pato un genere; l’autrice non pre­co­nizzò la Sto­ria ma il modo in cui sarebbe stata ripen­sata, un po’ come le imma­gini di Jae­ger sem­brano anti­ci­pare la faci­lità con oggi chiun­que può ritoc­care una foto. Il primo romanzo cui Bur­de­kin offrì un testi­mone è pro­prio quello di Sar­ban.

Nella società sepa­rata di Swa­stika Night, la sola forma amore con­cessa a una donna è assi­mi­la­bile alla devo­zione che un cane ha per il suo padrone, una regres­sione a uno stato ani­ma­le­sco che ricorda da vicino Il richiamo del corno. Molto è scritto già nel titolo. Pro­viene da una vec­chia e famosa can­zone inglese, e rie­voca la cac­cia alla volpe, i cui fasti cru­deli ben si atta­gliano al futuro di prede e cac­cia­tori che il pro­ta­go­ni­sta del romanzo, l’ufficiale di marina Alan Quer­dil­lon, ha la sven­tura di visi­tare. La sua fuga da un campo di pri­gio­nia tede­sco lo porta ad attra­ver­sare una non meglio pre­ci­sata bar­riera che separa il tempo in cui vive il nostro eroe, l’anno di guerra 1943, dall’anno cen­to­due­simo del primo mil­len­nio ger­ma­nico fis­sato dallo spi­rito immor­tale del Ger­ma­ne­simo: Adolf Hitler, ovviamente. Il tutto si svolge in un’area ristretta, una tenuta gover­nata da una ver­sione medie­va­leg­giante del mare­sciallo Goe­ring, un Gran Mae­stro delle Fore­ste che intrat­tiene i suoi ospiti con cacce a donne masche­rate da cervi o uccelli. Cat­tu­rate vive, le prede ven­gono ser­vite al ter­mine di un ban­chetto su enormi vas­soi d’argento, in un maniero «splen­di­da­mente illu­mi­nato» da aste lucenti sor­rette da «fan­ciulle il cui corpo era inte­ra­mente rico­perto di una ver­nice d’argento o inguai­nato in una pel­li­cola di un mate­riale così liscio e ade­rente che ognuna di loro, pur essendo viva, simu­lava alla per­fe­zione una luc­ci­cante sta­tua nuda». Baste­rebbe que­sto breve passo per farsi un’idea tanto dell’uso cui è sog­getto il corpo (a comin­ciare da quello fem­mi­nile, s’intende), quanto delle descri­zioni voyeu­ri­sti­che che costi­tui­scono il piatto forte del romanzo.

Nella bril­lante nota che cor­reda la nuova edi­zione ita­liana, Mat­teo Codi­gnola rico­strui­sce la biz­zarra para­bola esi­sten­ziale e let­te­ra­ria dell’uomo che si nascon­deva die­tro lo pseu­do­nimo di Sar­ban, un diplo­ma­tico inglese di nome John Wil­liam Wall, che tra­scorse buona parte della sua vita lon­tano dalla madre patria. Durante la seconda guerra mon­diale fu di stanza al Cairo e lì rimase fino al 1952, anno in cui Il richiamo del corno vide le sue prime stampe. La car­riera let­te­ra­ria di Wall conobbe una ribalta a dir poco breve, soprat­tutto per via di una pro­du­zione esi­gua, a sua volta frutto, stando al diretto inte­res­sato, di una grande pigri­zia. A parte due smilzi volumi di rac­conti, di Sar­ban resta sol­tanto que­sto «capo­la­voro minore», figlio della disto­pia di Swa­stika Night e primo di una lunga schiera di ucro­nie che vede nell’Uomo nell’alto castello di Phi­lip K. Dick il romanzo più rap­pre­sen­ta­tivo, se non il più riuscito. Per quanto, costrin­gerlo in una simile tra­di­zione è forse errato e ridut­tivo. King­sley Amis, che del romanzo fu esti­ma­tore, con­si­derò a ragione che Il richiamo del corno ha pochis­simo, se non nulla, della logica che soli­ta­mente sostiene la fan­ta­scienza, e mol­tis­simo, se non tutto, della «fan­ta­sia che fa appello agli istinti più pro­fondi e oscuri». Il rac­conto non esce mai dai con­fini di un sogno oscuro e il suo nar­ra­tore si rivela inat­ten­di­bile, prima ancora che per l’inverosimiglianza dei fatti rife­rita, per l’incertezza con cui li censura. D’altro canto, il pre­gio migliore del libro con­si­ste nel suo rischio peg­giore, in quell’irrisolvibile ambi­guità che è pro­pria di ogni rac­conto dell’orrore, l’ambiguità di non poter dirsi dav­vero immuni dal fascino del carnefice.

Adelphi, 2015
traduzione di Roberto Colajanni
pagine 191