Rifarsi una vita, reinventarsi altrove. Agli occhi dell’espatriato, che sia un migrante in cerca di fortuna o una semplice anima in pena che fugga dalla noia, nulla appare più falso del vecchio adagio per cui partire è un po’ morire. Rinascere: a questo pensa prima di tutto un espatriato. Ed espatriati sono i personaggi di Joseph O’Neill. Forse perché lui stesso è un uomo dalla patria incerta. Nato in Irlanda da padre irlandese e madre turca, cresciuto in Olanda, trasferitosi poi negli Stati Uniti. C’è anche un’altro aspetto che O’Neill condivide coi suoi personaggi o almeno con la voce narrante dell’ultimo romanzo. La professione. Entrambi sono avvocati, una coincidenza di non poco conto, giacché il legalese, la cavillosa lingua dei tribunali e dei regni burocratici in genere, è una forma mentis, incarna un’attitudine e una visione del mondo che è all’origine di tanta letteratura, a cominciare da Franz Kafka, che meglio di chiunque altro la conosceva e la praticava. Un che di kafkiano ha anche il verboso protagonista dell’Uomo di Dubai. Di sé ci confida quasi ogni cosa tranne il nome, sul quale mantiene un significativo riserbo. Sappiamo soltanto che comincia per X, il che lo rende simile al K. del Castello, anche perché una specie di maniero è il Situation, il condominio di lusso nel quale X dimora. Ci vive da quando ha lasciato New York per trasferirsi nella capitale emiratina, città innaturale e dispendiosa all’estremo, dove si trova di tutto anche se non dovrebbe esserci nulla, salvo la sabbia del deserto. C’è arrivato in seguito al fortuito incontro con un vecchio compagno di studi, un libanese che gli ha offerto di fare da amministratore alla sua straricca famiglia, stanziata a Dubai per ragioni fiscali.
Di fatto, X non ha granché di cui occuparsi, se non eludere messaggi di posta elettronica, firmare carte che sarebbe meglio non firmare e fare da balia a un adolescente svogliato e sovrappeso. La scarsità degli impegni gli lascia una spropositata quantità di tempo libero, tempo che X investe perlopiù almanaccando sulle assurdità che caratterizzano Dubai e, in particolare, lo stile di vita della privilegiata enclave degli espatriati occidentali. Coltiva anche un paio di hobby: fa immersione nelle acque del Golfo e si concede costose notti di amore con escort dell’Europa orientale. Ma anche in una di vita di annoiato sfarzo può irrompere il mistero. Un certo Ted Wilson, espatriato pure lui nonché sub dilettante, scompare. È tuttavia un mistero apparente o marginale, perché sebbene Wilson si riveli persona dal passato tutt’altro che limpido, la sua sparizione non sarà che uno che dei tanti rovelli di X, e nemmeno il più importante. Il nostro antieroe è infatti un rimuginatore seriale. Tutto lo preoccupa. L’edificio in costruzione di fronte al suo condominio, la visione di un porno violento, le pulizie di casa. Qualunque evento pur minimo, anzi la semplice ipotesi che un minino evento possa verificarsi, rappresenta per lui motivo di tormentose speculazioni.
L’ansia costante che rode X non è che il riflesso del suo modo di ragionare e raccontare, un modo da avvocato che riduce ogni cosa a un labirinto di clausole e sottoclausole, di latinismi e tecnicismi giuridici, di parentesi aperte dentro altre parentesi, di frasi infinite che paiono girare a vuoto. E proprio il burocratese funambolico, complesso e nondimeno fluidissimo, ma soprattutto esilarante, costituisce il maggiore godimento del romanzo. Nella sua fibrillante e irreale ansietà la lingua dell’Uomo di Dubai è inoltre uno specchio di quel capitalismo avanzato che ci vuole precari perenni, sempre obbligati a pensarci in movimento o altrove, sempre desiderosi di desiderare. E qui a Kafka si aggiunge un po’ di Ballard, che vedeva nelle nuove suburbie l’estensione residenziale dell’aria che si respira nei centri commerciali e negli aeroporti, quell’aria che ci fa sentire comunque di passaggio, mai a casa propria.