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Ogni volta che osserviamo un cielo stellato, uno di quei cieli che Einstein trovava stomachevoli e sopportava a stento anche ridotti in formule matematiche, dovremmo chiederci cosa stiamo osservando. Alcune stelle ci appaiono luminosissime malgrado siano in realtà più lontane del bagliore incerto, quasi invisibile, di altri astri a noi più vicini. Alcune sono addirittura così lontane che le vediamo splendere malgrado siano spente da prima che la vita apparisse su questa terra. Cose come queste sono ormai note a tutti, rivelazioni da cioccolatini, eppure, malgrado i paradossi dell’astrofisica appartengano da tempo ai luoghi comuni, la presenza del cielo stellato resta incontestata. In quanti lo guardano davvero come un’illusione, un sogno, un ricordo, un’invenzione? In quanti considerano la sua sfuggente e ambigua natura come un riflesso fedele del mistero del tempo ovvero del fatto che le distanze tra le stelle non si misurano in chilometri ma in anni, quelli che la luce impiega a percorrere infinità di chilometri?

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Dal 2012, un anno che alcuni profeti volevano apocalittico, ho iniziato a pensare alla volta celeste come alla mia pinacoteca ideale. Da sempre il mio genere ideale di pittura è il ritratto. Lo è perché solitamente trascurato, secondario. Tranne rare nobili eccezioni infatti – qualche Monna Lisa, qualche Fornarina, qualche postino di Arles – i ritratti godono di scarse attenzioni e spesso non a torto, giacché raramente hanno espresso una grande pittura. Del resto, perché esprimerla? Nei secoli prefotografici il ritratto era la pittura di servizio per eccellenza. Aveva uno scopo preciso, delimitato, pratico. Quel che il committente si aspettava dal pittore non era un’opera d’arte ma un’opera di somiglianza. Si aspettava cioè che il ritratto fosse somigliante o meglio che corrispondesse alla migliore idea che il committente aveva di sé. E se il committente rifiutava un ritratto non era mai per la cattiva qualità del dipinto ma sempre perché il soggetto da ritrarre non era raffigurato nel modo adeguato. Le pinacoteche sono piene di ritratti dipinti soltanto per rispondere a questa insignificante esigenza: perché somigliassero. Ritratti che il tempo ha reso anonimi proprio perché somiglianti, arte minore che si guarda distrattamente o non si guarda affatto.

Per sfera celeste gli astronomi intendono una sfera immaginaria di raggio arbitrario sulla cui superficie sono proiettati tutti gli astri visibili da un punto dato dell’universo, il più delle volte coincidente col punto occupato dal nostro pianeta. Io, per sfera celeste, intendo invece una stanza immaginaria di dimensioni variabili alle cui pareti sono appesi i ritratti di tutte le persone vive o defunte che è possibile conoscere direttamente o indirettamente, anche solo di sfuggita, nel corso di un’esistenza in vita; esistenza che identifico con la mia unicamente per comodità. Si tratta evidentemente di un’opera votata all’incompiutezza e che in ogni caso potrebbe dirsi compiuta soltanto qualora la persona collocata al centro della stanza cessasse la sua esistenza in vita o decidesse o accettasse di non uscire più da questa stanza per il resto dei suoi giorni. La Sfera celeste va perciò intesa come un luogo di transito e confine. I ritratti appesi alle pareti tracciano la mappa dell’al di qua, del tempo in cui le nostre esistenze in vita si manifestano. Il bianco di quelle stesse pareti segna il limitare di ciò sfugge al tempo del nostro esistere in vita. Ed è per questo che i ritratti, dorati come icone, sembrano staccarsi dalle pareti riflettendo sul bianco un’aureola colorata: perché di là da quel bianco, i draghi, per dirla alla maniera degli antichi cartografi.

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Le copertine che hanno rivestito i numeri di «Nuovi Argomenti» usciti nel 2016 sono una riproduzione in scala della mia Sfera celeste. Ogni copertina deve essere pensata come una parete di questo planetario temporale. Al lettore decidere se ricomporre mentalmente la stanza o provare a staccare le quattro copertine dal corpo della rivista per unirle in un quadrato e ricavare così un plastico della Sfera celeste. Fossi nel lettore, propenderei per la seconda opzione. Ma è pur vero che i lettori sono una categoria umana in via di estinzione. Il quasi estinto tenga comunque presente che l’incompiutezza cui guarda l’opera implica uno sforzo di astrazione. La stanza, che sia ricostruita in forma di plastico cartaceo o nella testa come pura astrazione, deve essere immaginata in continua espansione, con il numero delle Sfere in progressivo aumento e le pareti che si allargano di conseguenza. Ai più accorti non sfuggirà che questa espansione della stanza comporta una deriva dello sguardo. Nel loro allontanamento inesorabile, le pareti diventano sempre meno visibili agli occhi dello spettatore inchiodato al centro della stanza, fino ovviamente alla sparizione finale, unico compimento possibile.

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La stanza delle Sfere Celesti vista dall’alto

Ogni Sfera Celeste è disegnata e dipinta su una tavola dall’imprimitura rossa rivestita a sua volta di un fondo in foglia d’oro. Ogni tavola misura 24 centimetri in altezza e 20 in larghezza, e si stacca dalla parete grazie a uno spessore che riflette sul bianco del muro un alone rosato.

Le foto delle pareti sono state scattate da Alessandro Vasari.

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