In Cambogia, anzi in un buon romanzo fresco di stampa ambientato nella Cambogia d’oggi – Cacciatori nel buio di Lawrence Osborne – un poliziotto di nome Davuth passa le sue giornate placide e vuote sulla riva di un fiume, nell’attesa di un cadavere. Non sono cadaveri di nemici, quelli che aspetta di vedere, ma semplici occidentali o barang, come li chiamano da quelle parti. Giovani che si spingono in Estremo Oriente per svernare con pochi soldi, raccattare ragazze khmer e sballarsi in compagnia di altri barang. Sono tanti e qualcuno di loro, almeno uno al mese, finisce morto nel fiume. A quel punto Davuth ha qualcosa con cui riempire le sue giornate. Ripesca il corpo dall’acqua, ne esamina gli effetti personali – di solito pochi stracci e libri inutili – e sbriga le procedure, che spaziano dal chiamare l’ambasciata di competenza a una cremazione triste e solitaria. Negli anni ha anche imparato a trarre profitto dalla situazione vendendo al mercato nero quel che resta: anelli, portafogli, carte di credito. Sebbene più che verosimile, Davuth è comunque un personaggio di fantasia. L’esercito di barang sparpagliato per la Cambogia e negli altri paesi di quell’area è invece molto più che reale. La gran parte se ne va incolume. Ma ci sono anche quelli che restano, quelli che dopo avere cominciato ad apprezzare il caldo e il dolce affondare nella pigrizia, scoprono di odiare il posto da cui vengono, dove vivere costa un occhio della testa e non c’è futuro, perlomeno non il futuro di una volta, perché la lunga mano della crisi economica ha eroso pian piano ciò che un tempo pareva eterno, la classe media. Di questi aspiranti fuggitivi che si sottragono all’Occidente, alcuni sposano donne del posto e gestiscono pessimi ristoranti, altri si perdono tentando la fortuna in maniere improbabili.
Sono giovani d’oggi, cacciatori nel buio, sebbene Osborne peschi l’azzeccata definizione in un libro di storia, dove è riferita al Giappone medievale, segnatamente agli irrequieti cortigiani della corte imperiale, sempre a caccia di vantaggi personali ma soprattutto di felicità. Benché più miserabili degli antichi cortigiani, i giovani di oggi riescono a convertire la accidiosa inquietudine in una specie di benessere, ma in questo sentirsi più felici o anche solo meno infelici acquistano qualcosa di spettrale. Alcuni diventano perfino veri e propri fantasmi, spariscono del tutto cioè, come il cacciatore nel buio protagonista di questo romanzo, Robert, giunto in Thailandia da un paese del Sussex dove ha lasciato un lasciato un lavoro come insegnante, una coppia di genitori a cui sembra legato non più di tanto, una ragazza per cui ha un affetto pressoché impalpabile e una vita così priva di aspettative da dare un senso al suo cognome – Grieve – che in inglese corrisponde al verbo addololarsi o l’essere in lutto, il piangere la morte di qualcuno. Partito da semplice turista, per una breve vacanza, Robert ha già sconfinato sia nella geografia che nell’anima quando il lettore fa la sua conoscenza. Lo incontriamo infatti in Cambogia, squattrinato ma per nulla intenzionato a tornare in patria. Non ha un piano, solo la sua insoddisfazione. Tenta perciò la via dei disperati, il casinò, da cui esce incredibilmente vincitore, con quanto gli basta per procrastinare il suo limbo da aspirante fuggitivo. Pur tenendosi lontano dai tavoli da gioco, finisce comunque per perdere tutto, a parte un biglietto da cento dollari e un vestito non suo che si ritrova indosso risvegliandosi su una barca che lo molla alle porte di Phnom Penh. Come Robert riesca a proseguire nella sua fuga prendendo ispirazione dall’abito di un altro va ovviamente taciuto, visto che in fondo parliamo di un romanzo dalla suspense esotica, discendente in linea diretta di Graham Greene e più in generale di quella narrativa tipicamente anglosassone che vede in espatriati e viaggiatori cronici i loro protagonisti ideali. Del resto, lo stesso Osborne è un espatriato, vive da tempo a Bangkok, città alla quale ha dedicato un libro. Vanta trascorsi da giramondo incallito che ha documentato in maniera più o meno giornalistica finché non ha intrapreso la strada della pura narrativa con romanzi come questo Cacciatori nel buio, i cui personaggi, disperata eco degli espatriati di un tempo, si muovono ai margini delle masse di turisti sciatti, dei migranti al contrario sfigurati da tatuaggi insensati e chili in eccesso, prove viventi che l’Occidente è finalmente davvero al tramonto.