«Soltanto i giovani hanno tali momenti» scriveva Jospeh Conrad a proposito di quel misto di noia, stanchezza e insoddisfazione che può portare colui che è ancora nel fiore degli anni a «commettere azioni sconsiderate, quali maritarsi d’improvviso o gettare via un impiego senza ragione». Lo scriveva all’inizio del ventesimo secolo, anche se il protagonista di Linea d’ombra restava compreso in un vitalismo romantico e avventuroso di stampo ancora ottocentesco. Non che noia, stanchezza e insoddisfazione siano poi d’incanto spariti dall’orizzonte dei sentimenti. Tutt’altro. Grazie a moderne invenzioni quali il benessere diffuso e il tempo libero, sono più vivi che mai e ci ammorbano l’esistenza come pochi veri veleni potrebbero fare. Semmai sono i giovani – quelli alla Conrad, perlomeno – a sembrare un ricordo di altri tempi, e non perché il calo delle nascite conduce la nostra società verso un progressivo invecchiamento. Per quanto trito possa risultare, è più la contemporanea religione dei consumi che non il consumo in sé a avere reso possibile il miracolo di una giovinezza virtuale e a ampio spettro, a avere dilatato una fase fuggevole della vita ben oltre i confini della maturità biologica, trasformandola in una condizione mentale, se non in un vero e proprio obbligo sociale, che dà poca o nessuna importanza all’età anagrafica. I sociologi hanno perfino fissato una data precisa in cui il fenomeno della «cultura giovanile permanente» avrebe avuto inizio: 1956, anno di lancio di Heartbreak Hotel, primo grande successo di Elvis Presley. A loro modo di vedere fu allora che si posero le basi di quanto sarebbe accaduto negli anni Sessanta e in quelli a venire. Fu allora che si crearono le condizioni per la definizione di un giovane nuovo e a due facce: una che lo vede in rivolta contro il sistema e il perbenismo, l’altra strumento di un mero affare commerciale, di quel colossale affare del secondo dopoguerra reso possibile dall’avvento dei media e della cultura dell’immagine. Chi diffida delle analisi sociologiche può comunque trovare un buon esempio della nascita del nuovo mondo in Revolutionary Road, che Kurt Vonnegut definì «Il Grande Gatsby della mia epoca». Stando invece a Tennesse Williams il romanzo andrebbe considerato come un prototipo di quel che ogni capolavoro dovrebbe essere; Richard Ford lo ha infine santificato al rango di «classico di culto».
Apprezzamenti tanto entusiastici sembrano però stridere con il fatto, purtroppo incontestabile, che Revolutionary Road, pubblicato nel 1961, ha raggiunto una vera consacrazione presso il grande pubblico solo tardivamente. La trama si dipana tra la primavera e l’estate del 1955; pochi mesi prima, dunque, che la cultura giovanile permanente facesse il suo avvento. Protagonisti sono i coniugi Wheeler, il cui quadretto familiare è, a prima vista, di una felicità tanto invidiabile che comune. Frank e April hanno due bei bambini, uno di quattro di anni e l’altro di sei; sono in buona salute, non hanno particolari problemi economici e vivono nel Connecticut occidentale, a Revolutionary Hill, quintessenza di quegli agglomerati suburbani che cominciarono a proliferare in America proprio negli anni Cinquanta. In apparenza la coppia si integra a meraviglia in questo nuovo mondo dei balocchi fatto di belle strade, supermercati in cui abbondano merci ammiccanti, chioschi dove si vendono frappé ai bambini che scorrazzano beati sui loro tricicli; un mondo dove case dai colori pastello si stagliano come tanti paradisi dell’armonia domestica, paradisi di periferia, tutti lindi e puliti, tutti immersi nelle loro aiuole fiorite, tutti con una ghiaia bianca e ben curata che emette lo stesso frizzante ed educato scricchiolio quando i mariti rientrano dal lavoro alla guida della loro automobile. Eppure qualcosa non va. April ha appena ventinove anni; alta, capelli biondo cenere, sembra il prototipo della bellezza wasp ma due gravidanze hanno lasciato i loro segni e, malgrado lei riesca ancora a muoversi con la grazia di una fanciulla, i fianchi le si sono appesantiti. Anche Frank sta per varcare la soglia dei trenta; anche lui è nel fiore degli anni e ha un aspetto gradevole, ma la sua bellezza ha qualcosa di ordinario, una bellezza che «un fotografo pubblicitario potrebbe scegliere per ritrarre l’avveduto consumatore di un prodotto di qualità ma dal prezzo accessibile». Senza contare, poi, che il suo impiego per quanto buono e sicuro, è comunque «il lavoro più cretino che si possa immaginare». Ciò detto, di cosa dovrebbero lamentarsi, Frank e April? Di non avere più vent’anni? Di non essere straordinariamente giovani e belli? Si può essere tanto superficiali da trasformare il grigiore del quotidiano in una linea d’ombra? A quanto pare sì. A quanto pare l’ingresso nel mondo dei trentenni può essere percepito come «la fine di un’epoca o qualcosa del genere». In base a una visione del mondo che sarebbe fin troppo facile definire «da persone immature», Frank e April godono di agi e privilegi che a parole dichiarano di detestare; appartengono al mondo della piccola borghesia, ma dichiarano con infantile ostinazione di non volere farsi contaminare, di non volere dimenticare quello che erano soltanto pochi anni prima. Dileggiano tutte quelle persone che sembrano bearsi delle loro deliziose casette, delle effimere gioie del consumismo, dell’idea di «allevare i figli in un bagno di sentimentalismo — papà è un grand’uomo perché guadagna quanto basta per campare, mamma è una gran donna perché è rimasta accanto a papà per tutti questi anni». La verità è però che nel loro rifiuto dello squallore di un’esistenza ordinaria, Frank e April sono accecati dalla paura di prendersi quelle responsabilità che maturità e convezioni sociali impongono; ne sono talmente accecati da non rendersi conto che anche a loro capita di fare l’amore in maniera giudiziosa e tranquilla, «da persone posate», o di aggrottare la fronte senza motivo al cospetto delle immagini tremolanti che scorrono in televisione.
Vi è tuttavia una verità ancora più desolante che la coppia pretende di rimuovere con il suo eccessivo disprezzo per la mediocrità. I due non si amano. Inizia così il tempo dei litigi cui fa seguito l’inevitabile immersione nel rituale dei silenzi e delle ripicche, ma l’idea che il rapporto sia in crisi non sembra nemmeno sfiorare la coppia. Invece di analizzare a fondo problemi reali, come quello che April avrebbe preferito abortire anziché mettere al mondo una figlia, i due si meravigliano che persone piene di sogni e belle speranze come loro si siano lasciati invischiare nelle sabbie mobili del quotidiano. E se Frank si trastulla nel modo più banale ovvero facendosi la classica insipida amante, April si lambicca con la pervicacia di una bambina capricciosa e propone la sua soluzione: mollare tutto e trasferirsi a Parigi dove lei potrebbe entrare nello staff segretariale della NATO e lui «trovare se stesso». La brillante idea, che inizialmente sembra restituire una parvenza di armonia e ottimismo, non farà che esasperare i problemi e condurre la coppia verso un finale da tragedia in piena in regola, un finale che anticipa di quasi mezzo secolo cose destinate a diventare materia comune di prodotti hollywodiani, genere American Beauty. Ma quella che nel nostro presente appare amministrazione fin troppo ordinaria, all’epoca non era affatto scontata. Tanto per dirne una, sul «New York Times» venne pubblicata una recensione che liquidava Frank e April come due psicopatici afflitti da una miseranda inclinazione autodistruttiva. Nessuno intendeva mettere in dubbio il talento di Richard Yates e il romanzo per poco non vinse il National Book Award, ma alcuni ritennero giusto obiettare che lo scrittore avesse fatto un cattivo uso delle sue doti. Come era possibile — ci si domandò — che un romanzo potesse ruotare attorno alle vicende di due personaggi «non interessanti» alle prese con problemi tanto effimeri? Le cose naturalmente non stanno così. Ai nostri occhi Frank e April non sono solo interessanti ma anche verosimili; più che verosimili, visto che di «psicopatici» come loro se ne contano a milioni nel mondo contemporaneo. Ma il modo in cui l’America guardava se stessa negli anni Cinquanta era molto diverso; il paese era appena uscito vittorioso da una guerra e, malgrado la minaccia sovietica e la caccia alle streghe, l’imperativo era quello di credere di essere all’inizio di un periodo di prosperità senza precedenti. La generazione di Frank e April — che è poi quella di Richard Yates, nato a Yorker, nello stato di NewYork, nel 1926 e morto in Alabama nel 1992 — aveva trascorso l’infanzia durante la Grande Depressione per poi ritrovarsi in guerra nella prima giovinezza. La propaganda militaresca e cinematografica degli anni Quaranta aveva però preparato il terreno al mito esaltato nel decennio successivo da sitcom televisive e pubblicità: un sogno americano apparentemente alla portata di tutti ma non per questo meno desiderabile. Ora la frontiera non era più il selvaggio West, ma i tranquilli sobborghi residenziali lontani dal traffico caotico delle grandi città.
Per quanto stucchevole e irreale potesse essere, l’America credeva al suo nuovo sogno formato famiglia, voleva crederci, voleva credere che quel modello di vita fosse non solo desiderabile ma anche imprescindibile. Yates lo sapeva bene e proprio nelle pagine conclusive del suo romanzo mise una frase a suggello del baratro che divideva la soluzione prefabbricata della felice vita di provincia e la storia che egli aveva narrato: «Il quartiere di Revolutionary Road non era stato progettato in funzione di una tragedia… Un uomo intento a percorrere di corsa queste strade, oppresso da un disperato dolore, era fuori posto in modo addirittura indecente». Si può discutere a lungo sul carattere di Frank e April e in particolare sulla natura di certe nevrosi, forse eccessive ed esasperate per il clima dell’epoca, ma Yates ha sempre giudicato ridicola l’etichetta di scrittore realista che gli è stata assegnata. La verosimiglianza non era ciò che gli stava più a cuore e, in anni più recenti, qualcuno si è perfino chiesto se il mondo di Revolutionary Road vada preso alla lettera o interpretato; se sia stato scritto da un punto di vista «metafisico o entomologico». Come sempre capita in questi casi, la verità va cercata a metà strada. Quando scrisse il suo capolavoro, Richard Yates era un uomo in mezzo al guado. Lo era biologicamente perché in procinto di varcare la soglia della maturità. Lo era culturalmente perché diviso tra i miti della sua giovinezza e la nuova realtà che andava prendendo forma sotto i suoi occhi. Da un lato subiva ancora il fascino degli anni ruggenti e degli Americani in Europa, Hemingway e Fitzegerald su tutti — «Non ci fosse stato un Fitzgerald, penso che non sarei mai diventato scrittore» era solito dire Yates. Dall’altro era netta in lui la convinzione che gli anni Cinquanta avessero segnato la definitiva scomparsa di quel mondo e che un’epoca ben più triste e grigia fosse iniziata, un’epoca in cui l’America avrebbe cominciato a diventare sempre più americana, a considerare se stessa come l’unico modello degno di essere perseguito, lasciandosi però di fatto alle spalle molto del suo spirito rivoluzionario. E con ciò si arriva al senso riposto nel titolo fin troppo simbolico del romanzo: rimpiazzato da una versione capricciosa e immatura del «cercare se stessi», il diritto del «pursuit of happiness» sancito per costituzione in virtù della rivoluzione americana è andato irrimediabilmente perduto. Proprio l’appartenenza a una generazione in bilico tra due epoche, tra «new deal» e «nuova frontiera», consentì a Yates di cogliere le avvisaglie del «vicolo cieco» che per molti anni a venire — anche dopo i vari Kennedy, i figli dei fiori e la guerra del Vietnam — avrebbe continuato a chiudere strade su strade ai cittadini degli Stati Uniti. Probabilmente, malgrado le ufficiali iniezioni di ottimismo, l’ansia del vicolo cieco era nello spirito dei tempi, visto che altri due romanzi fondamentali di quel periodo contengono la parola strada nel titolo: On the Road (pubblicato nel 1957) di Jack Kerouac e End of the Road (1958) di John Barth. In ogni caso, va riconosciuto a Yates di non essersi limitato ad anticipare certe evoluzioni dell’indivuduo postmoderno — adolescenzialismo cronico, instabilità emotiva quale stato permanente, esasperante difficoltà ad accettare realtà e responsabilità — ma di avere intuito che questi nuovi tratti si sarebbero affermati di pari passo al «concetto assolutamente rivoluzionario dell’elaborazione elettronica dei dati». Ma anche volendo togliere a Yates la patente, peraltro non essenziale, di veggente, non è possibile dimenticare l’importanza che il suo meraviglioso romanzo ha rappresentato per due intere generazioni di scrittori, un’importanza che si estende ben al di là dell’influenza che gli viene in genere accreditata — quella su Carver e dintorni. E anche dimenticando quanti rumori bianchi e correzioni sono passati, per un verso o per l’altro, dalle parti di Revolutionary Road, nessuno potrà comunque negare che la storia narrata da Yates più di mezzo secolo fa è ancora la nostra storia e continuerà a esserlo per molto tempo.