Come si diventa un geek? Ecco in sostanza di cosa parla Nightmare Alley. Da quando il libro è uscito, nel lontano 1946, il significato di questo termine è molto cambiato. Nel parlare odierno, un geek è un fissato, un patito, un entusiasta, un individuo spesso goffo, votato alla asocialità perché troppo preso da un un interesse particolare perlopiù riconducibile alla tecnologia e i computer. In contesti colloquiali viene usato anche con l’accezione di sfigato, un po’ come accade con nerd, tanto che i due termini vengono scambiati da molti per sinonimi. Geek è però parola ben più antica dei computer. Non risale alla notte dei tempi ma la troviamo già nel sedicesimo secolo, come espressione dialettale e con un significato più spregiativo di quello attuale ovvero per dire svitato, tonto, citrullo. Se poi consultassimo un dizionario degli anni ’70, vi troveremmo una definizione ancora diversa e assai più specifica, volta a indicare uomini dall’aspetto selvaggio e abbrutito che nelle fiere ambulanti d’America attiravano il pubblico con uno spettacolo orripilante: staccare a forza di morsi la testa di animali vivi, quasi sempre serpenti o galline. L’ingresso dei computer nella vita quotidiana e la scomparsa dei baracconi con le loro discutibili e disgustose attrazioni hanno ormai cancellato qualunque memoria di questo uso gergale di geek, quello cui fa riferimento William Lindsay Gresham in Nightmare Alley. Visti i tanti e diversi significati assunti nel tempo dalla parola, è evidente che il traduttore non pò lasciarla in inglese; deve renderla in italiano. Il problema è come. I geek non appartengono alla nostra tradizione circense e gli stessi baracconi nostrani non sono equiparabili ai carnival che giravano per gli Stati Uniti agli inizi del secolo scorso. Una soluzione la si può forse pescare nelle Avventure di Pinocchio, libro ramingo e stralunato in cui meraviglia e orrore si intrecciano in maniere che non hanno eguali nella nostra letteratura; libro dove incontriamo personaggi come Mangiafoco che Collodi descrive come un omone così brutto, da far paura solo a guardarlo, con la bocca larga quanto un forno, gli occhi che paiono due lanterne di vetro rosso e nelle mani «una grossa frusta, fatta di serpenti e code di volpe attorcigliate insieme». Geek può diventare allora mangiabestie, perché è anche così che procede un traduttore: là dove non esistono parole o nozioni equivalenti nella lingua di arrivo, si cercano suggestioni, rimandi, sponde. Nightmare Alley pone più di una sfida in questo senso. Ne pone sul piano del linguaggio, perché ricco di espressioni più o meno gergali e modi di dire molto specifici e in buona parte ormai scomparsi dall’uso, espressioni legate al tempo – gli anni della Grande Depressione – e ai vari contesti – a cominciare dai baracconi – in cui è ambientata la storia. Ma ne pone molte anche sul piano dello stile.
Romanzo fuori dell’ordinario, trascinante e malato, Nightmare Alley è al contempo un inferno e un paradiso per un traduttore e di conseguenza anche per il lettore voglioso di libri che lo mettano alla prova. I registri cambiano spesso. Il tono con cui vengono descritti gli eventi non non è mai scolpito nella pietra; può essere triste e perfido al contempo, inquietante e struggente, lirico e spaventato. È uno stile febbrile, quello di Grasham; uno scrivere ebbro, imbevuto d’alcol, disarticolato quanto ipnotico. Si può saltare da un punto di vista all’altro, da un tempo verbale all’altro, dal racconto distaccato e onnisciente al flusso di coscienza, il tutto senza preavviso ma anche senza che la voce narrante perda il suo carattere distintivo, la sua folle maledizione. Perché Nightmare Alley è anche un libro maledetto. Lo è il suo protagonista, un individuo che nonostante le sue qualità, le sue apparenti speranze, ha il destino di segnato. Colui che all’inizio ci appare come un bel ragazzo dai capelli biondi si rivelerà, col passare delle pagine, un arrivista cinico e spietato, incurante di tutto e di tutti, capace di qualunque nefandezza pur di riscattarsi a suon di denaro. E man mano che lo vediamo trasformarsi nel Grande Stanton, vale a dire in un ciarlatano deciso a sfruttare la credulità del prossimo, la nostra percezione cambia. Ci rendiamo conto cioè che abbiamo davanti qualcosa di più di un miserabile atteso da una brutta fine. Il romanzo nasce da storia che William Lindsay Gresham aveva sentito in Spagna, dove si era recato per combattere come volontario al fianco dei lealisti nella Guerra civile. Tornato in America, decise di darle una forma scritta. All’epoca la lesse Tyron Power scorgendovi la possibilità di ricavarne un film diverso da quelli in cui gli toccavano sempre parti romantiche e positive, ruoli rassicuranti che sentiva ormai stretti. Convinse così una scettica 20th Centurt Fox a acquistarne i diritti e metterla in produzione, ponendo i presupposti per la nascita di un grande classico del cinema noir. Rinchiudere questo torbido e affascinante romanzo nel circo del noir sarebbe però fuorviante. Il modo in cui il racconto procede con lentezza febbrile verso l’inesorabile gli conferisce i tratti di un classico più prossimo a Faulkner o, per certi versi, a Lo straniero di Camus. La storia fa inoltre pensare a un Grande Gatsby virato di tenebra. Se Gatsby aveva un sogno da realizzare, il grande Stanton ha un incubo da cui fuggire e guarda alla vita come un vicolo dove si viene braccati in eterno. Insomma, senza entrare nel vivo trama, Gresham ha mostrato come pochi altri il lato più fosco del sogno americano. Un lato che lo scrittore, in fin dei conti maledetto anche lui, conosceva così bene che nel 1962 si tolse la vita proprio nell’albergo di New York in cui anni prima aveva scritto il suo romanzo su come si diventa un mangiabestie. In tasca gli trovarono un mazzetto di biglietti da visita con sopra stampato «Niente indirizzo. Niente telefono. Niente lavoro. Niente soldi».