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Sono piccoli edifici solitamente non più larghi di sei metri e alti un paio di piani. Un miscuglio di architettura coloniale e cinese concepito per concentrare in un’unica costruzione lavoro e vita privata. Disotto l’attività, disopra gli alloggi. Le chiamano shophouse. A partire dal diciannovesimo secolo, quando i mercanti cinesi misero radici un po’ ovunque, sono diventate un tratto tipico del paesaggio urbano del sud-est asiatico. In città come Singapore ospitano da tempo boutique e caffè alla moda. A Bangkok sono una specie edilizia in pericolo di estinzione. La maggior parte fu demolita nella metà degli anni 80 per fare spazio a grattacieli, alberghi di lusso e centri commerciali. I pochi esemplari superstiti, alcuni dei quali ristrutturati e convertiti in studi e spazi espositivi da artisti e architetti, non sono che aghi nell’immane pagliaio di cemento che è ormai questa convulsa e contraddittoria metropoli. I tailandesi credono fermamente che in ogni casa dimori uno spirito. Forse è per questa ragione che lasciano andare in rovina quelle più vecchie, le preferite dai fantasmi. Lo stravolgimento urbano occorso a Bangkok negli ultimi due decenni non è dunque solo una questione di dissennata speculazione edilizia. È anche una storia di fantasmi. Una storia come quella che apre Fragile Days, la raccolta di racconti nei quali lo scrittori Tew Bunnag fotografa con delicata empatia cosa significhi vivere in questo porto di piacere e disperazione dell’estremo oriente, tra condomini di lusso e più di trecentomila persone che vivono nelle baracche ammassate lungo i binari.

Al centro del racconto di Bunnag c’è per l’appunto una shophouse destinata alla demolizione. Per lungo tempo un fantasma scoraggia i potenziali acquirenti ma alla fine una catena alberghiera di Singapore conclude l’affare. Al posto della vecchia costruzione sorgerà un piccolo parco a tema dove verranno rappresentate scene della storia tailandese, inclusa una battaglia con gli elefanti. Alla giovane proprietaria, dopo aver fatto di tutto per preservare la casa in cui hanno vissuto i suoi antenati, non resta che arrendersi. Del resto per un buddista nulla è permanente a questo mondo. La donna può solo sperare che il fantasma continui a infestare il luogo lasciando interdetti i visitatori del futuro parco a tema. Anche Tew Bunnag ha dovuto accettare la caducità del luogo in cui è nato. «Nell’arco della mia vita ho visto cambiare Bangkok in termini drammatici e radicali» mi dice con gli occhi rivolti alla finestra nella quale si staglia il profilo di una città che ama ma fatica a riconoscere. Quella che vediamo è Bangkok, ma dalle poltrone dello Starbucks del centro commerciale in cui ci troviamo potrebbe sembrare lo scorcio di una metropoli pescata a caso nel mare dei tanti paesi in via di sviluppo. Non un segno del passato. A parte qualche crepa che questi ultramoderni edifici iniziano a mostrare malgrado la loro giovane età. Il cemento invecchia in fretta. Bunnag indica un punto nella foresta di edifici. «Lì, un tempo, c’era un canale. I bambini ci andavano a fare il bagno ed era pieno di barche a remi». Ci tiene a sottolineare che non c’è alcuna nostalgia nelle sue parole. «È necessario conservare la memoria di ciò che si è stati se non si vuole perdere la propria identità. Per questo scrivo: perché la Bangkok di oggi con le sue storie non vada perduta come è accaduto alla Bangkok di ieri. Si scrive per ricordare, e anche per sollevare domandare. Non molto lontano da qui ci sono baracche dove la gente vive e muore in mezzo ai topi, e io domando perché? Perché così tante persone sono lasciate in uno simile stato di abbandono?»

Come molti uomini orientali Bunnag porta magnificamente i suoi sessanta anni. Nato nel 1947 a Bangkok, appartiene a una fra le più importati e nobili schiatte della Tailandia. Nel diciannovesimo secolo, quando il re Chulalongkron era ancora troppo giovane per salire al trono, Suriwong Bunnag fu il reggente del Siam. Durante questo periodo la famiglia Bunnag assunse un prestigio comparabile a quella dei Fujiwara dell’antico Giappone. Tew ha studiato in Inghilterra, e da allora ha vissuto a lungo all’estero, lontano dalla sua città. Quando vi ha fatto ritorno, nel 2000, si è preso cura dei malati di AIDS ricoverati in un ospedale situato nell’area portuale. «Sono diventato scrittore per sbaglio» dice. «Il mio lavoro è con la gente che soffre. Molti mi domandano perché mi dia tanta pena per delle persone che sono comunque destinate a morire». Mi sa che morire è più o meno il destino di tutti, faccio io. Il mio interlocutore annuisce. «Ricchi e poveri ci sono sempre stati» dice Bunnag. «Ma in passato la distinzione era netta. Da una parte c’erano quelli che avevano tutto, dall’altra parte quelli che non avevano niente. E spesso gli ultimi erano al servizio dei primi. Ora ci sono le baracche, i centri commerciali, e in mezzo una vasta zona grigia dove la povertà prende mille diverse sfumature. A volte rimango soggiogato dalla resistenza della povertà. Il problema della Tailandia è che ha un’unica grande città, Bangkok. Tutti vogliono venire qui nella speranza di trovare qualcosa». La città ha cominciato a cambiare all’inizio degli anni 70.

«Avevo vent’anni all’epoca, studiavo in Inghilterra e partecipavo alle proteste contro l’intervento americano in Vietnam. È stata proprio quella guerra a cambiare il volto del nostro paese. I soldati in licenza arrivavano a Bangkok e la città si è attivata per dargli ciò che chiedevano. Sesso, tanto per cominciare. E poi droga e quant’altro. Nel 1975, finita la guerra, Bangkok ha dovuto fare i conti con il vuoto lasciato dai soldati americani. L’industria del sesso e del turismo è nata dalle rovine della guerra. Negli anni 80 hanno cominciato a costruire la frastagliata mostruosità di cemento che adesso vediamo al di là di questa finestra. Non tutti condividono la mia analisi, però. Dicono che sono a pazzo a sostenere che l’origine di tutto sia stata la guerra del Vietnam». In effetti, la prostituzione era assai diffusa già da tempo. Il primo salone di massaggi della città fu aperto nel 1956 ed era frequentato dai giapponesi che risiedevano in Tailandia nonché dai funzionari più anziani della polizia. Secondo alcuni, il vero boom dei cosiddetti go-go bar non fu determinato affatto dai soldati americani bensì dagli impiegati delle compagnie aeree che stabilirono i propri uffici nella famigerata area di Pat Pong, il quartiere a luci rosse oggi diventato una sorta di squallido luna park erotico con annesso mercato di paccottiglia. Le statistiche dicono inoltre che appena il cinque per cento del gigantesco giro d’affari legato alla prostituzione è rivolto ai farang, come qui vengono chiamati gli occidentali.

Tew Bunnag sa bene tutte queste cose ma resta dell’idea che sia stata l’illusione di un turismo portatore di benessere a determinare la speculazione edilizia e finanziaria degli anni 80. La terribile crisi economica del 1997 dalla quale il paese non si è ancora del tutto ripreso fu una catastrofe fin troppo annunciata. «Questo è un paese essenzialmente rurale. Non c’è una produzione industriale che giustifichi l’aspetto che ha assunto Bangkok negli ultimi decenni. Molti di quegli edifici non sono che scatole vuote. Invece che rincorrere chimere, la Tailandia dovrebbe investire di più sulla sua vera forza, l’agricoltura». Ciò nonostante Bunnag è fortemente legato a questa città che sa ancora offrire ancora sprazzi della sua antica bellezza. I tramonti colore dell’oro, gli improvvisi e violenti acquazzoni nella stagione delle piogge, il gracidare notturno delle rane toro, il silenzio di certi vicoli pieni di piante. In molti passano di qui, prendono quel che gli serve e se ne vanno. «Ma quelli che restano — scrive l’autore in una sorta di ode posta come epilogo a Fragile Days — sanno di essere a casa, nel cuore di una follia che è lo specchio della loro anima. La decadenza è consolatoria. È come essere posti di fronte alla prima delle nobili verità rivelate dal Buddha: il dukka. Il segno della nostra esistenza, l’inesplicabile realtà della sofferenza. È il tratto essenziale e tangibile di Bangkok, la sensazione di librarsi sul fondo delle cose».

L’aria di Bangkok ha il sapore della morte e della fragilità. Il suo odore è inconfondibile, una densa mistura prodotta dai rifiuti lasciati marcire nei canali di scolo, dai micidiali gas di scarico del traffico assordante, dai corpi sudati della gente e, in rari momenti, dal fumo di un incenso che brucia in un altare o dal profumo dei fiori. È una Bangkok perennemente affacciata sull’orlo del collasso e della putrefazione quella che Tew Bunnag ritrae nei suoi racconti. Storie di piccola umanità all’ombra dei pilastri di cemento dello skytrain, la metropolitana sopraelevata che attraversa come un miraggio tecnologico il cuore di una città dove sacro e profano sembrano convivere senza troppi problemi. Per quanto, non è che sia rimasto granché di sacro nelle strade arroventate da sole e nei vicoli bui e affollati. «La religione non è esattamente quella di quando ero bambino» scrive Bunnag domandandosi in quale misura sia effettivamente cambiata questa città la cui bruttezza è cresciuta dentro di sé «come un fungo su un muro umido».

La paradossale sensazione di accorato estraniamento che pervade i racconti di Fragile Days è intensificata dal fatto che l’autore li scrive in inglese. «Il thai è una bellissima lingua ma essendo molto onomatopeica da un lato e poco duttile dall’altro impone troppi limiti sul piano narrativo» spiega Bunnag. «Per esempio, non contempla l’uso del condizionale. L’evento ipotetico può essere espresso solo per mezzo di perifrasi e allusioni. Trovo più congeniale scrivere in inglese e far poi tradurre i miei racconti in thai». La scelta potrà apparire strana ma funziona. L’uso inevitabilmente misurato del linguaggio si rivela il riflesso perfetto di una società che rischia di smarrire tragicamente i propri valori. I protagonisti delle storie di Bunnag vengono sempre colti al capolinea della loro esistenza morale, nel momento in cui hanno vissuto abbastanza da fare i conti col passato, in particolare con ciò che hanno perduto o non hanno saputo conservare. Come Ne Sei, il protagonista di The Gambler, che dopo aver sprecato anni ai tavoli da gioco aspettando che la fortuna girasse dalla sua parte, molla le carte per sposare una taciturna ragazza che lo evirerà, una pratica per nulla rara tra le donne tailandesi desiderose di porre fine una volta per tutte alle incessanti scappatelle dei lori mariti. Uomini che tradiscono e umiliano donne pentendosi della loro dissennatezza quando ormai è troppo tardi, donne che si prendono crudeli rivincite oppure, più frequentemente, si ritrovano abbandonate a se stesse, con una o più bocche da sfamare. Sono storie ricorrenti a Bangkok e che gli abitanti di questa città, ricchi o poveri che siano, accettano come un karma. Storie che non operano distinzioni di ceto. La fragilità attraversa ogni strato sociale intrecciando i destini dei pochi eletti alla moltitudine dei diseredati come una delle tante ghirlande di fiori che pendono dagli altari o dagli specchietti retrovisori dei taxi.

Proprio nei giorni del nostro incontro (siamo nel maggio del 2007) esce il nuovo libro di Bunnag, ora reperibile anche in traduzione italiana grazie ai tipi di Metropoli d’Asia. «Il mio primo romanzo. Ho aspettato a scriverne uno perché la narrativa esige di essere disciplinatamente folli o disciplinati alla follia». The Naga Journey è la cronaca dell’improbabile amicizia tra persone di diversa estrazione sociale che si ritrovavano a vivere una drammatica esperienza nel corso della cremazione di una noto personalità pubblica. Il modo in cui reagiscono all’evento costringe gli amici a confrontarsi con un passato che finora hanno cercato di evitare. Tutto il romanzo è pervaso dall’allegorica presenza del Naga, l’imprevedibile forza dell’acqua, al contempo fonte di vita e distruzione. Il punto culminante giunge infatti quando Bangkok è minacciata da un’imponente inondazione. In questa apocalittica reminiscenza dello tsumani gli amici troveranno la loro catarsi. Il tragico finale concede però un estremo messaggio di speranza e riconciliazione. Un messaggio che Tew Bunnag intende chiaramente estendere a chiunque passi per Bangkok, che rimanga o che resti in questa città metafora del mondo intero.

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