Un fascino ambiguo emana dalle opere incompiute. L’essere tronche, e non di rado piene di difetti che l’autore non ha potuto o voluto emendare, le sottrae alla perfezione intoccabile dell’arte facendole sembrare per certi versi più umane, caduche come una vita spezzata nel fiore degli anni. Tuttavia quel che in esse vi è d’inespresso le allontana da noi, ne fa delle creature enigmatiche e inafferrabili, un ibrido di detto e non detto che ha i tratti inquietanti della sfinge. Fatale dunque che il più famoso e indagato tra i romanzi incompiuti annunci fin nel titolo un mistero. Lo scrisse Charles Dickens – o per meglio dire: lo stava scrivendo, pubblicandolo a puntate mensili, quando, il 9 giugno 1870, fu stroncato da un infarto senza lasciare appunti che potessero fornire indicazioni in merito a quale avrebbe dovuto essere il finale. Non aveva compiuto i sessanta, essendo nato duecento anni fa, il 7 febbraio 1812.
Si vocifera che tre mesi prima di morire, Dickens abbia avuto un colloquio privato con la regina Vittoria nel corso del quale si dichiarò disponibile a fare qualche anticipazione confidenziale sulla storia che teneva col fiato sospeso i lettori. La sovrana non raccolse l’offerta, condannando Il mistero di Edwin Drood a un’irrisolutezza probabilmente irrimediabile. Nella bandella della riedizione italiana per i tipi di Utet si legge che l’ultimo romanzo del grande scrittore britannico «viene qui presentato in una nuova traduzione così innovativa da rendere pressoché evidente la soluzione del giallo». Un’ardita affermazione cui non fanno seguito lumi di sorta su quel che, con tanta chiarezza, verrebbe finalmente svelato. E non potrebbe essere altrimenti: la missione, seppure teoricamente non impossibile, è di quelle improbe. Manca infatti il presupposto fondamentale. Si può aspirare a risolvere un giallo solo nella certezza di un delitto, certezza che purtroppo il testo abortito di Dickens non fornisce. Nel ben mezzo della storia, Edwin Drood scompare senza lasciare traccia, a parte alcuni gioielli che verranno trovati in un secondo momento. Tutto lascerebbe supporre che sia stato ucciso dallo zio nonché tutore John Jasper, direttore del coro della cattedrale di Cloisterham, il quale, oltre che essere segretamente innamorato della promessa sposa di Edwin, è uomo infido e notturno, un frequentatore di cripte e fumerie d’oppio.
Il romanzo si ferma però prima ancora di chiarire se Edwin sia stato davvero ucciso e a cosa effettivamente alluda il mistero evocato nel titolo. Nel corso dei decenni gli interrogativi lasciati in sospeso sono stati oggetto di incessanti speculazioni, rasenti spesso l’assurdo anche perché fu lo stesso Dickens a confessare all’amico e biografo John Forster che l’idea di fondo era «molto forte, sebbene difficile da realizzare». Si è per esempio fantasticato che Drood scampi in qualche modo all’assalto omicida dello zio per poi ricomparire en travesti, nei panni dell’investigatore Dick Datchery. A confortare simili ipotesi ci sarebbero i titoli alternativi che lo scrittore aveva appuntato nei suoi taccuini: La scomparsa di Edwin Drood, Vivo o morto? e Edwin Drood alla macchia. È però assai probabile che Dickens li abbia presi in considerazione semplicemente per tenere nascosta fino all’ultimo la triste sorte di Drood, tanto più che in qualità di editor consigliò a un collega di usare la parola «mistero» nel titolo così da svelare in partenza che il racconto sarebbe culminato in un omicidio.
D’altro canto, il romanzo è diventato leggendario proprio in virtù della nebbia di indeterminatezza che da sempre lo avvolge e che trova un suo potente riflesso simbolico nei fumi dell’oppio, presenti già nelle primissime pagine. Com’è facile intuire, oltre alla ridda d’ipotesi, nemmeno i tentativi di portare a termine il romanzo sono mancati. L’ultimo in ordine di tempo a essersi cimentato nell’impresa è, almeno in apparenza, Dan Simmons. In apparenza sì, perché in Drood si tenta qualcosa di più ovvero un immaginario resoconto della vita di Charles Dickens, segnatamente della sua parte finale, il periodo che va dal 9 giugno 1865 – data che vide lo scrittore coinvolto in un incidente ferroviario – allo stesso giorno di cinque anni più tardi, quello del letale attacco di cuore. Il racconto ha un narratore d’eccezione quanto inattendibile: un quarantenne non al massimo della forma, un oppiomane afflitto da gotta reumatica e sindromi paranoiche che lo inducono a credere di essere costantemente accompagnato dal proprio alter ego. A renderlo eccezionale, non sono però l’inclinazione per le sostanze stupefacenti né la salute traballante, bensì lo stretto rapporto che lo legava a Dickens. Si presenta senza indugi, nell’incipit, alla maniera al contempo cerimoniosa e confidenziale tipica dei romanzi dell’Ottocento: «Mi chiamo Wilkie Collins e dato che mi riprometto di procrastinare la pubblicazione di questo documento oltre la data della mia dipartita per almeno un secolo e un quarto, suppongo che il mio nome vi risulti sconosciuto».
Ovviamente, il lettore sa bene che Collins è lo scrittore inglese da molti considerato l’inventore del genere poliziesco, ma il malcelato risentimento con cui il narratore si consegna preventivamente all’oblio dei posteri serve a introdurre l’altro fondamentale elemento che lo caratterizza: l’inattendibilità. Collins è infatti un amico di Dickens ma è così roso dall’invidia per lo straordinario talento del collega da invischiarsi in una relazione pericolosa alla Amadeus, dove riserva per sé il ruolo di Salieri consapevole di essere un artista mediocre rispetto a Mozart, il cui genio trova ovviamente il suo corrispettivo letterario in Dickens. Il livore generato dalla frustrazione ottunde la sua obiettività più della droga, gettando sui fatti narrati una inverosimiglianza sinistra. Il bello è che Collins, anziché pensare a sé, si preoccupa per la salute mentale dell’amico, a suo avviso seriamente minata in seguito allo spaventoso incidente ferroviario già menzionato e all’incontro, avuto per l’appunto in quella drammatica circostanza, con un certo Edwin Drood, qui descritto come un personaggio spettrale e cadaverico. Nel prosieguo della sua narrazione, Collins si dirà convinto che l’amico scrittore ha sviluppato una strana ossessione per il signor Drood, arrivando al punto di sospettare che i due cospirino in gran segreto per l’edificazione di un impero egiziano nel cuore della Londra vittoriana.
Dan Simmons è scrittore più che consumato. Nella sua vasta e variegata produzione, almeno un paio di titoli sono destinati a durare nel tempo: L’estate della paura, uno dei migliori horror di sempre, e Danza macabra, titanica e cupa metafora della sopraffazione gratuita imperante nella società contemporanea. Questo Drood, quantunque scrupolosamente basato sulle biografie dei due scrittori, è però un miscuglio non ben definibile. Per un lato thriller storico, per l’altro horror psicologico, è un ibrido accattivante ma non del tutto riuscito, complice un confronto a distanza con Dickens oggettivamente difficile da sostenere. Di esiti assai più felici, è il recente La scomparsa dell’Erebus, ispirato a noto un disastro del XIX secolo e dunque assimilabile a Drood per la vocazione di insinuarsi a suon di audace finzione nelle crepe della verità storica. Nel 1845 Sir John Franklin, ufficiale della Reale marina britannica, partì alla volta del Canada artico deciso a trovare il mitico quanto elusivo passaggio a Nord-ovest. Guidava una spedizione di due navi, la Terror e l’Erebus, e aveva messo in conto di passare almeno un inverno bloccato nei ghiacci. Il piano era quello di spingersi più lontano possibile e attendere l’arrivo dell’estate. Sfortunatamente per lui e i suoi uomini, il 1846 fu un anno particolarmente freddo. L’estate sembrò non arrivare mai, lasciando le imbarcazioni prigioniere dell’Artide. Ciò che accadde lo sanno coloro che non sono più tornati, ma Simmons prova a dare la sua orrifica versione introducendo una misteriosa creatura, la «Cosa sul ghiaccio», che richiama alla memoria un breve racconto di John W. Campbell da cui fu tratto un classico della fantascienza cinematografica, il celeberrimo La cosa da un altro mondo.
La reminescenza non è casuale perché Simmons ha dedicato il libro, «con affetto e molti ringraziamenti per gli indelebili ricordi d’ambiente artico», al regista Howard Hawkes e altri undici membri della troupe che realizzò quel film. Ma è soltanto uno dei molti richiami. Voltata pagina, una citazione in esergo da Melville chiama in causa un altro temibile mostro, la Balena bianca, così come il motivo della nave bloccata e l’ambientazione polare evocano La linea d’ombra di Conrad, il Frankestein di Mary Shelley e il Gordon Pym di Poe. La «Cosa» di Simmons è naturalmente un essere malevolo e assetato di sangue; permane però a lungo il dubbio se il mostro sia di carne e ossa o un’entità immaginaria partorita da questa accolita di sventurati prigionieri dei ghiacci. Provati dal gelo, afflitti da fame e malattie, i marinai sono infatti preda di paure e superstizioni ancestrali che sconfinano nel paganesimo. In cima ai testi prediletti da Sir Franklin ci sarebbe la Bibbia, ma a prendere il comando dopo la sua morte è il capitano Crozier, che nelle ore disperate ricorre invece al Leviatano di Hobbes, leggendo ai suoi uomini passi come questo: «Non c’era niente che un Poeta non potesse introdurre come personaggio nel suo Poema, senza che ne facessero un Dio o un Diavolo». E un diavolo è la Cosa sul ghiaccio, un demone che si fa mostro per dispensare un castigo terreno, per punire la boria dell’uomo cosiddetto civilizzato, per porre un definitivo freno alla scellerata sconsideratezza di ritenersi superiori alla natura. Ma il vero cuore del romanzo, l’elemento che ne fa un’opera degna di attenzione, è il dualismo che oppone i due comandanti. E mentre Franklin, obnubilato da un arrogante idealismo e una cieca fede nei metodi occidentali, condanna alla morte il proprio equipaggio rifiutandosi di adottare le locali tecniche di sopravvivenza, Crozier dimostra un istintivo e pragmatico attaccamento alla vita che non salverà i suoi uomini dalla morte né riporterà lui a casa, ma darà comunque un senso alla fine, a un’esistenza che non può essere altro che «misera, sgradevole, bestiale e breve».
merci beaucoup, bello è stato leggere qui su.
Ricordo anche il libro “La verità sul caso D.” di Fruttero e Lucentini.
Per la precisione, gli autori riportati in copertina sono Dickens, Fruttero & Lucentini.
Questa la descrizione del volume presente in Ibs.it:
“II 9 giugno 1870 Charles Dickens muore nella sua casa di Gadshill lasciando irrisolto “Il mistero di Edwin Drood”, che da quel momento diventa il più intrigante, affascinante, dibattuto romanzo della letteratura inglese. Un caso complesso e tuttora aperto. Fruttero & Lucentini si fanno aiutare dai massimi investigatori d’ogni tempo e paese: Holmes e Dupin, Padre Brown e Maigret, Marlowe, Wolfe, Poirot & Company; li riuniscono a Roma, grazie a onnipotenti sponsor giapponesi; e li mettono all’opera ciascuno con la sua esperienza, il suo intuito, il suo personalissimo metodo… È nato così un geniale cruciverba indiziario dove il ‘Mistero’ di Charles Dickens e l”Inchiesta’ di Fruttero & Lucentini si completano con un effetto di doppia suspense irresistibile.”